L’indagine campionaria “Reddito e condizioni di vita” (Eu-Silc), condotta nel 2017 su 22.226 famiglie (48.819 individui), rileva numerosi indicatori delle condizioni economiche delle famiglie, insieme ai redditi netti familiari e alla condizione lavorativa per mese di calendario riferiti al 2016.
Sulla base di tali informazioni, l’Unione europea calcola gli indicatori ufficiali per la definizione e il monitoraggio degli obiettivi di politica economico-sociale, perseguiti dalla Strategia Europa 2020, che si propone, a livello Ue, di ridurre di 20 milioni gli individui esposti al rischio di povertà o esclusione sociale entro il 2020. Per il nostro Paese l’obiettivo è quello di far uscire da questa condizione 2,2 milioni di persone rispetto al valore registrato nel 2008 (ultimo dato disponibile quando l’impianto strategico Europa 2020 fu impostato). In Italia, nel 2008, risultavano a rischio di povertà o esclusione sociale 15.082.000 individui (25,5% della popolazione residente). L’obiettivo è quindi di ridurli a 12.882.000 entro il 2020. Nel 2017 gli obiettivi prefissati sono ancora lontani: la popolazione esposta a rischio di povertà o esclusione sociale, circa 17 milioni e 407 mila unità, è infatti superiore di circa 4 milioni e 525 mila unità rispetto al target previsto.
CONDIZIONI DI VITA
Un decimo della popolazione in condizioni di grave deprivazione materiale
Nel 2017, il 20,3% (valore pressoché stabile rispetto al 20,6% del 2016) delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà, cioè fa parte di famiglie il cui reddito disponibile equivalente (N.d.R.: per reddito equivalente si intende il reddito di cui un componente di una famiglia dovrebbe disporre per avere lo stesso livello di benessere economico nel caso in cui vivesse da solo. Il reddito equivalente si ottiene rapportando il reddito familiare alla dimensione della famiglia in termini di adulti equivalenti (scala di equivalenza) e consente di confrontare i livelli di reddito di famiglie di dimensione diversa. Si tratta quindi di una misura che tiene conto della dimensione e composizione delle famiglie e delle conseguenti economie di scala che si realizzano a seguito della coabitazione di più persone nella stessa famiglia) nel 2016 (anno di riferimento dei redditi) è inferiore alla soglia di rischio di povertà pari a 9.925 euro (il 60% della mediana della distribuzione individuale del reddito disponibile equivalente); il 10,1% si trova in condizioni di grave deprivazione materiale (in forte diminuzione rispetto al 12,1% dell’anno precedente); l’11,8% (12,8% nel 2016) vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia in famiglie con componenti tra i 18 e i 59 anni che nel 2016 hanno lavorato meno di un quinto del tempo.
Complessivamente, la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 28,9%, in diminuzione rispetto al 30,0% del 2016, e include tutti coloro che si trovano in almeno una delle suddette tre condizioni.
Anche a livello europeo (Il riferimento è ai dati dell’Unione europea con i 28 Stati membri. Si fa presente che non sono disponibili i dati relativi all’Irlanda e al Regno Unito), l’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale diminuisce negli anni 2016-2017, passando dal 23,5% al 22,5%; in controtendenza il Lussemburgo, dove sale di oltre un punto percentuale, e la Danimarca, i Paesi Bassi e l’Austria, paesi in cui cresce di mezzo punto percentuale. Il valore per l’Italia si mantiene inferiore a quello di Bulgaria (38,9%), Romania (35,7%), Grecia (34,8%) e Lituania (29,6%) ma è di gran lunga superiore a quello di paesi come Repubblica Ceca (12,2%), Finlandia (15,7%) e dei paesi europei più grandi come Francia (17,1%) e Germania (19,0%).
In Italia, per le persone che vivono da sole, la stima passa negli ultimi due anni dal 34,9% al 34,2%. Segnali di miglioramento più marcati si osservano per le coppie senza figli (dal 21,4% al 20,0%), soprattutto se la persona di riferimento ha meno di 65 anni (dal 25,0% al 23,1%). Tale miglioramento è associato a una diminuzione della grave deprivazione materiale e della bassa intensità lavorativa per le persone che vivono da sole, mentre per le coppie senza figli il miglioramento delle condizioni di vita coinvolge anche il rischio di povertà.
La diminuzione del rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto i residenti nel Sud e nelle Isole (da 46,9% nel 2016 a 44,4% nel 2017), dove il sottostante indicatore di grave deprivazione materiale si riduce di quasi 5 punti percentuali (da 21,2 a 16,5%). Ciononostante, in questa area territoriale il rischio rimane molto più elevato e coinvolge quasi una persona su due. Le condizioni di vita migliorano anche per i residenti del Nord-est, dove il rischio di povertà o esclusione sociale scende dal 17,1% al 16,1% tra il 2016 e il 2017. Nel Nord-ovest e al Centro l’indicatore del rischio di povertà o esclusione sociale rimane invece prossimo ai livelli dello scorso anno (rispettivamente da 21,0% a 20,7% e da 25,1% a 25,3%).
Diminuisce il rischio di povertà o esclusione sociale per coloro che vivono prevalentemente di reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (da 35,8% a 34,3%) e di reddito da lavoro autonomo (da 33,7% a 32,4%), in entrambi i casi per il calo registrato per l’indicatore di grave deprivazione materiale.
Rispetto all’anno precedente rimane pressoché stabile la quota di persone a rischio di povertà – 20,3%, circa 12 milioni e 235 mila individui – che hanno cioè un reddito disponibile equivalente inferiore alla soglia di povertà di 9.925 euro annui (827 euro al mese). La metà dei poveri non raggiunge il valore mediano di reddito disponibile equivalente pari a 7.137 euro annui (595 euro al mese), determinando così un gap mediano di povertà (la distanza dalla soglia) pari al 28%.
Famiglie numerose o con stranieri ancora le più svantaggiate
Nel 2017 si stima che le persone a maggior rischio di povertà o esclusione sociale ricadano in prevalenza in famiglie numerose con cinque o più componenti (42,7%, dal 43,7% nel 2016), in famiglie di coppie con tre o più figli (41,1%, in sensibile miglioramento dal 46,1% dell’anno precedente), in famiglie con tre o più minori (44,5% dal 47,3%), ma anche in quelle monogenitore (38,8%). Per le famiglie con cinque o più componenti il rischio di povertà e la grave deprivazione sono rispettivamente pari a 33,6% e 15,2%.
Elevati livelli di rischio di povertà o esclusione sociale si osservano anche tra coloro che vivono in famiglie con un solo percettore (45,1%) o in famiglie con fonte principale di reddito non proveniente da attività lavorative (34,3% se la fonte principale è la pensione e/o altro trasferimento pubblico, 65,9% se si tratta di altri tipi di reddito, come per esempio redditi da capitale).
Analogamente al 2016, tra coloro che vivono in famiglie con almeno un cittadino straniero (Il concetto di cittadino straniero comprende anche gli apolidi), il rischio di povertà o esclusione sociale è quasi il doppio (49,3%) rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani (26,5%). Il divario è più accentuato sia per il rischio di povertà (38,9% contro il 18,1% ) sia per la grave deprivazione materiale (21,5% contro 8,8%). Di contro, la bassa intensità lavorativa risulta più che dimezzata tra gli individui in famiglie con almeno uno straniero (6,0% a fronte del 12,7% per le famiglie di soli italiani).
Ancora in crescita il reddito delle famiglie nel 2016
Nel 2016 si stima che le famiglie residenti in Italia abbiano percepito un reddito netto pari in media a 30.595 euro, circa 2.550 euro al mese. Tuttavia, poiché la distribuzione dei redditi è asimmetrica, la maggioranza delle famiglie ha conseguito un reddito inferiore all’importo medio. Se si calcola il valore mediano, ovvero il livello di reddito che divide il numero di famiglie in due metà uguali, si osserva che il 50% delle famiglie ha percepito un reddito non superiore a 25.091 euro (2.091 euro al mese), con un incremento del 2,3% rispetto al 2015, quando metà delle famiglie aveva percepito un reddito non superiore a 24.522 euro.
Rispetto all’anno precedente il reddito netto familiare medio è invece cresciuto del 2,0% in termini nominali e del 2,1% in termini reali, considerando la dinamica dei prezzi al consumo lievemente negativa nel 2016 (-0,1%).
Si intensifica così il ritmo di crescita del reddito reale rispetto all’anno precedente, quando era aumentato dell’1,6%. La crescita del reddito equivalente è invece simile a quella del 2015, con un incremento medio del 2,2% in termini reali. La contrazione complessiva dei redditi rispetto ai livelli pre-crisi del 2009 resta notevole, con una perdita in termini reali pari in media all’8,5% per il reddito familiare e al 6,7% per il reddito equivalente
I redditi nominali sono stati deflazionati utilizzando il valore medio annuo dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione europea (IPCA). Tale indice è preferibile rispetto all’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), poiché si riferisce alla spesa monetaria per consumi finali sostenuta esclusivamente dalle famiglie e assicura una misura dell’inflazione comparabile a livello europeo.
Poiché in Italia la proprietà dell’abitazione principale è ampiamente diffusa (meno di un quinto delle famiglie vive in affitto) è opportuno considerare nel calcolo del reddito disponibile anche l’affitto figurativo delle case di proprietà, in usufrutto o in uso gratuito in modo da confrontare correttamente le condizioni economiche delle famiglie di inquilini e proprietari.
Nel 2016 il reddito familiare inclusivo degli affitti figurativi è stimato in media pari a 35.204 euro, con un incremento dell’1,4% in termini di potere d’acquisto, minore di quello registrato al netto di questa componente figurativa a causa della sua contrazione (-3,0% rispetto al 2015). Il reddito equivalente inclusivo di tale componente è invece cresciuto dell’1,5% in termini reali.
L’andamento delle principali tipologie di reddito familiare nel corso del 2016, ne ha evidenziato una crescita piuttosto omogenea, con tassi di crescita del 2,0% per i redditi da lavoro dipendente, dell’1,7% per i redditi da lavoro autonomo[1] e dell’1,9% per i redditi da pensioni e/o trasferimenti pubblici. I redditi da capitale sono invece diminuiti del 2,1% a causa della riduzione degli affitti figurativi. La perdita complessiva rispetto ai livelli precedenti alla crisi resta molto più ampia per i redditi da lavoro autonomo (-23,8% in termini reali rispetto al 2009) in confronto ai redditi da lavoro dipendente (-5,1%) e ai redditi da pensione e trasferimenti pubblici
(-5,0%). I redditi da capitale mostrano una perdita complessiva del 16%, interamente attribuibile alla dinamica negativa degli affitti figurativi (-20,5% in termini reali dal 2009).
Nel 2016, in termini reali, i redditi familiari medi sono cresciuti di più al Centro (+2,9%) e nel Nord-est (+2,5%) rispetto al Nord-ovest (+1,9%) e al Mezzogiorno (+1,4%) rispetto all’anno precedente. I maggiori incrementi si osservano per le famiglie mono componente (+3,6%) mentre le famiglie con almeno cinque componenti vedono scendere lievemente il proprio reddito (-0,5%). Rispetto ai livelli del 2009, il reddito familiare in termini reali è sceso del 10,9% nel Mezzogiorno, del 10,3% al Centro, dell’8,4% nel Nord-ovest e del 4,2% nel Nord-est. Il calo è stato più accentuato per le famiglie con tre, quattro e cinque o più componenti e più contenuto per le famiglie con due e un solo componente.
Nel 2016 sono le famiglie del Nord-est a disporre dei redditi mediani più elevati (29.364 euro), seguono le famiglie del Nord-ovest, del Centro e del Mezzogiorno, con livelli rispettivamente pari al 92%, 89% e 72% di quello osservato nell’area più benestante. Il livello di reddito mediano è chiaramente diversificato in base alla tipologia familiare. Le coppie con figli raggiungono i valori mediani più alti (36.622 euro annui, 3.052 euro al mese), trattandosi nella
maggior parte dei casi di famiglie con due o più percettori (2,2 percettori in media). Le coppie con tre o più figli percepiscono un reddito mediano (34.616 euro) più basso di quello osservato sia per le coppie con un solo figlio (36.737 euro) sia per quelle con due (37.195 euro).
Le famiglie monogenitore, composte in media da 2,5 componenti, presentano valori di reddito inferiori di circa 10.900 euro rispetto a quelli delle coppie con figli. Gli anziani che vivono soli nel 50% dei casi non superano la soglia di 14.960 euro (1.247 euro mensili), 2.866 euro in meno circa rispetto ai single in età attiva (un differenziale di circa 240 euro al mese). Anche le coppie senza figli percepiscono un reddito mediano più basso se la persona di riferimento è anziana rispetto alle omologhe più giovani (25.772 contro 31.657 euro). Il livello di reddito mediano delle famiglie con stranieri è inferiore di 6.700 euro rispetto a quello delle famiglie di soli italiani. Le differenze relative si accentuano passando dal Nord al Mezzogiorno, dove il reddito mediano delle famiglie con almeno uno straniero è pari al 52,0% di quello delle famiglie di soli italiani.
DISUGUAGLIANZA
Al 20% più povero della popolazione poco meno del 7% del reddito totale
Per misurare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è possibile ordinare gli individui dal reddito equivalente più basso a quello più alto e classificarli in cinque gruppi (quinti). Il primo quinto comprende il 20% degli individui con i redditi equivalenti più bassi mentre l’ultimo include il 20% di individui con i redditi più alti (Figura 4). Nella situazione ipotetica di perfetta eguaglianza, ogni quinto della popolazione disporrebbe di una quota di reddito pari al 20% del totale. La distribuzione del reddito totale nei quinti fornisce, dunque, una misura sintetica della disuguaglianza.
Se si fa riferimento alla distribuzione dei redditi individuali equivalenti, senza la componente degli affitti figurativi, si nota che il 20% più povero della popolazione dispone soltanto del 6,7% delle risorse totali mentre il quinto più ricco ne possiede il 39,3%; in altri termini, il reddito totale dei più benestanti è pari a 5,9 volte quello degli individui appartenenti al primo quinto. L’inclusione degli affitti figurativi riduce la distanza fra ricchi e poveri, portando i cittadini più ricchi a percepire nel complesso un reddito pari a 5,1 volte quello degli appartenenti al primo quinto.
La crescita del reddito reale nel 2016 è associata, diversamente da quanto osservato nell’anno precedente, a una riduzione della disuguaglianza: il reddito equivalente del quinto più povero della popolazione è infatti cresciuto in media del 7,7%[1] in termini reali rispetto al 2015, mentre il reddito del quinto più ricco è aumentato dell’1,9%, portando il rapporto tra la quota di reddito dei più benestanti e quella dei più poveri da 6,3 a 5,9. In ogni caso, la perdita complessiva accumulata a partire dal 2009 rimane più ampia per gli individui appartenenti al primo quinto (-14,3% in termini reali) rispetto a tutti gli altri quinti, per i quali la contrazione del reddito equivalente oscilla tra i 6 e gli 8 punti percentuali.
La distribuzione del reddito in Italia evidenzia una marcata componente territoriale della disuguaglianza (Prospetto A5 in Appendice). I residenti al Sud e nelle Isole ricadono più spesso nel primo quinto (32,9%) rispetto a coloro che vivono al Centro (16,2%), nel Nord-ovest e nel Nord-est (13,4% e 10%). Parallelamente, nel quinto più ricco sono più presenti i residenti al Nord (oltre il 25% per il Nord-ovest, quasi il 28% per il Nord-est) rispetto ai cittadini del Centro (22,8%) e del Mezzogiorno (9,7%). I soggetti che vivono in famiglie numerose, in particolare in coppie con tre o più figli, risultano concentrati nel quinto più povero (33,7%) e meno presenti nei quinti più ricchi (12,2% e 10,9% rispettivamente nel quarto e nell’ultimo). Questo aspetto si lega anche alla maggiore presenza dei minori nel segmento inferiore della distribuzione dei redditi, soprattutto se vivono in famiglie numerose. Quando vi è almeno un minore si ha una concentrazione del 25,5% nel primo quinto, quota che raggiunge il 38,7% nel caso i minori siano tre o più. Viceversa, le coppie senza figli o con un solo figlio ricadono meno frequentemente nel quinto più basso (rispettivamente nel 12,2% e nel 14,6% dei casi) e più spesso nel quinto più ricco (27,3% e 24,5%). I soggetti che risiedono in famiglie con stranieri risultano fortemente svantaggiati, collocandosi nel 37,2% dei casi nel quinto più povero e in appena il 5,0% nel quinto più alto.
Denotano una maggiore vulnerabilità gli individui appartenenti a famiglie con principale percettore sotto i 35 anni (27,7% nel primo quinto), con titolo di studio basso, ossia al più la media inferiore (28,4%), in condizione di disoccupazione (57,1%) o inoccupazione (45,2%) e in famiglie il cui principale percettore ha cittadinanza straniera (39,5%).
Un livello di istruzione più alto del principale percettore di reddito della famiglia risulta sistematicamente associato a una collocazione nella parte alta della distribuzione dei redditi e, quindi, a migliori condizioni economiche. Infatti, appartengono al quinto più ricco della distribuzione quattro persone su dieci (42,9%) appartenenti a famiglie con percettore principale laureato.
Più disuguaglianza dei redditi in Italia che nella media dei paesi europei
Una delle misure principalmente utilizzate nel contesto europeo per valutare la disuguaglianza tra i redditi degli individui è l’indice di concentrazione di Gini. Sulla base dei redditi, calcolati secondo la definizione armonizzata a livello europeo, nel 2016 il valore stimato per l’Italia è pari a 0,327, in riduzione rispetto a 0,331 nel 2015 ma sempre più alto della media europea[1] ( 0,303). Nella graduatoria dei Paesi dell’Ue per i quali è disponibile il dato, l’Italia occupa la diciannovesima posizione (Figura A1 in Appendice).
In Italia l’indice di Gini è più elevato nel Sud e nelle Isole (0,334) rispetto al Centro (0,318), al Nord-ovest (0,311) e al Nord-est (0,279).
CARICO FISCALE DELLE FAMIGLIE
Aliquote fiscali medie più basse per le famiglie con minori
In Italia la tassazione dei redditi è su base individuale, con detrazioni che tengono conto solo in parte delle condizioni familiari del contribuente. Per comprendere appieno gli effetti del prelievo fiscale sul benessere materiale e sulle condizioni di vita delle famiglie occorre valutare il carico tributario rispetto alle entrate di tutti i componenti.
Nel 2016, l’aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare si conferma stabile al 19,4% rispetto all’anno precedente. La presenza in famiglia di uno o più componenti minori (prevalentemente coppie con figli) consente ai nuclei familiari sostenuti da un unico percettore di ottenere alcuni benefici fiscali che, per effetto delle detrazioni, crescono all’aumentare dei figli a carico. I valori più bassi delle aliquote medie si registrano, in linea con l’anno precedente, tra le coppie con tre o più figli (di cui almeno uno minore) con l’8,4%. Relativamente contenuto è il prelievo fiscale tra le coppie con due figli, di cui almeno uno minore (13,9%) e tra le famiglie di altra tipologia, in prevalenza con due o più nuclei (13% circa).
Il trattamento favorevole di cui godono le famiglie con minori è determinato, oltre che dalle maggiori detrazioni per i componenti a carico, anche dalla possibile fruizione di assegni al nucleo familiare (esenti da imposta), modulati in modo tale da crescere all’aumentare del numero dei componenti. Il vantaggio fiscale tende tuttavia ad assottigliarsi man mano che aumenta il livello di reddito familiare. La riduzione dell’aliquota al crescere dei figli a carico è meno accentuata tra le famiglie di due o più percettori, si azzera nella classe di reddito superiore (oltre 40.000 euro) mentre persiste tra le famiglie sostenute da un unico percettore.
Poiché il sistema fiscale italiano non prevede trasferimenti monetari ai cosiddetti incapienti (ovvero ai contribuenti che, a causa delle loro ridotte entrate, riportano un’imposta lorda così bassa o nulla da non poter fruire pienamente delle detrazioni spettanti), accade spesso che le famiglie della classe di reddito 0-15mila euro non riescano ad abbattere ulteriormente il loro carico fiscale, pur in presenza di un numero considerevole di figli. Ciò avviene soprattutto se il già basso reddito familiare proviene da una sommatoria di redditi individuali ridotti: nella prima fascia di reddito, la probabilità che si verifichi una situazione di incapienza è tre volte più elevata nelle famiglie con due o più percettori rispetto alle famiglie con un solo percettore.
Le persone sole di età inferiore a 65 anni e le coppie senza figli con persona di riferimento under 65 sono le tipologie su cui grava il maggiore prelievo fiscale, ambedue con aliquote medie superiori a 21%. In particolare tra le famiglie mono-percettore, le coppie con persona di riferimento con più di 65 anni presentano il più elevato carico fiscale (21,9%), disponendo infatti del reddito medio annuo lordo più elevato (28.250 euro circa). Oltre che dal livello di reddito, l’elevata incidenza della tassazione è spiegata anche dall’assenza di detrazioni per familiari a carico.
Le famiglie con un solo percettore di reddito (prevalente) da lavoro autonomo riportano, lungo tutta la distribuzione dei redditi, aliquote medie fiscali inferiori rispetto alle restanti strutture di reddito familiare (mono-percettore). Per l’autonomo, si consolida così il vantaggio fiscale relativo esibito l’anno precedente . Il minor prelievo nelle classi di reddito non elevate risiede nella possibilità data ai lavoratori autonomi di accedere a regimi fiscali agevolati, forfettari, di poter dichiarare un reddito su base presuntiva secondo i parametri degli studi di settore o è legata a fenomeni di elusione/evasione. A parità di classe di reddito, l’aliquota media fiscale 2016 per le famiglie di lavoratori autonomi con entrate medio-basse è, tuttavia, in leggera crescita rispetto al 2015.
A loro volta, i lavoratori dipendenti appartenenti a famiglie mono-percettore subiscono la maggiore imposizione in corrispondenza delle due classi di reddito più elevate, rispettivamente 27,1% e 36,0%. Queste famiglie registrano negli anni 2015-2016 un sensibile incremento del carico fiscale (+1,5%) nella sola classe inferiore di reddito (meno di 15.000 euro). Tale andamento si spiega con l’innalzamento repentino del loro livello medio di reddito nel segmento basso della distribuzione (+2,8%) che determina un riallineamento ai valori del 2014. Si rammenta che anche nel 2016 ha trovato applicazione il Bonus di 80 euro che ha concesso una “detrazione fiscale” (d’importo medio annuo pari a 820 euro) a oltre 11 milioni di lavoratori dipendenti (Dati MEF al lordo delle restituzioni del Bonus).
Le famiglie con unico percettore di redditi non da lavoro (prevalentemente pensionati) beneficiano, nel corso del biennio 2015-16, di una riduzione del peso fiscale lungo quasi tutta la distribuzione dei redditi e più marcatamente nelle classi estreme.
Il carico fiscale è mediamente più basso per le famiglie residenti nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese (16,2% contro 19,8% del Nord-est, 20,5% del Centro e 20,9% del Nord-ovest). Infatti, esse possiedono un più elevato numero di familiari a carico (con detrazioni di conseguenza più elevate) e dispongono di redditi mediamente più bassi (anche all’interno di ciascuna fascia di reddito) che garantiscono loro una tassazione più favorevole lungo tutta la distribuzione dei redditi familiari. Le famiglie appartenenti a quest’area geografica sono costituite per il 21% circa da coppie con figli e un unico percettore (contro il 14% del complesso Italia) e per il 59% circa da coppie con figli e più percettori di reddito (contro il 52% del dato nazionale).
COSTO DEL LAVORO
Stabile il livello del costo del lavoro dipendente
Il costo del lavoro (il costo del lavoro è calcolato sui percettori di reddito da lavoro dipendente, sono esclusi coloro che nell’anno di riferimento hanno percepito solo arretrati da lavoro dipendente), che è dato dalla somma delle retribuzioni lorde dei lavoratori e dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro, nel 2016 presenta una sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente, risultato di una flessione della contribuzione a carico del datore di lavoro (-1,0%) controbilanciata da un incremento della tassazione del dipendente (+1,8%).
Nel 2016 il costo del lavoro raggiunge il valore medio di 32.154 euro. La retribuzione netta che resta a disposizione del lavoratore rappresenta poco più della metà del totale del costo del lavoro (54,3% pari a 17.447 euro). La parte rimanente (45,7%, 14.707 euro) costituisce il cuneo fiscale e contributivo, ossia la somma dell’imposta personale sul reddito da lavoro dipendente e dei contributi sociali del lavoratore e del datore di lavoro.
Come noto, i contributi sociali dei datori di lavoro rappresentano la componente più elevata del costo del lavoro (25,0%) mentre il restante 20,7% è a carico dei lavoratori sotto forma di imposte dirette (14,2%) e di contributi sociali (6,5%).
A livello territoriale, il costo del lavoro è più elevato al Nord: la quota di retribuzione netta a disposizione del lavoratore raggiunge il valore minimo del 53,1% nel Nord-ovest. Per quanto riguarda le percettrici di reddito da lavoro dipendente, il costo del lavoro rappresenta circa il 73% di quello dei dipendenti uomini e la retribuzione netta è pari a quasi il 77% di quella maschile.
Il cuneo delle percettrici di reddito da lavoro dipendente rappresenta il 44,0% del costo del lavoro, a fronte del 46,8% dei percettori uomini. Come atteso, il cuneo fiscale e contributivo è più elevato all’aumentare dell’età e del titolo di studio che consente di accedere a lavori più remunerativi. Infatti il cuneo raggiunge il valore massimo del 54,0% del costo del lavoro per i dirigenti mentre è al 44,5% per gli operai. Inoltre, è nettamente più elevato per chi presenta un contratto di lavoro a tempo indeterminato (46,6% contro i 41,7% di chi ha un contratto temporaneo) e un orario di lavoro a tempo pieno (46,3% rispetto a 38,8% di chi lavora meno di 30 ore settimanali); si attesta al 46,0% per i cittadini italiani contro il 41,9% di chi non ha la cittadinanza italiana. A livello territoriale, il cuneo è più elevato nel Nord-ovest (46,8%) e al Centro (46,2%), e più basso (43,6%) al Sud e nelle Isole, dove i redditi sono mediamente inferiori.
Al 33% il carico fiscale e contributivo sui redditi da lavoro autonomo
Nel 2016 i redditi da lavoro autonomo, al lordo di imposte e contributi sociali e al netto dei voucher lavoro, risultano in media pari a 23.264 euro[1]. Rispetto all’anno precedente, presentano un incremento del valore medio dell’1,4%. Dopo il prelievo fiscale e contributivo il reddito disponibile autonomo costituisce il 66,6% del reddito iniziale: le imposte rappresentano il 16,4% del reddito lordo e i contributi sociali, finalizzati al conseguimento delle prestazioni previdenziali e assistenziali, il 17% (Prospetto 5).
Anche nel lavoro autonomo le differenze di genere risultano piuttosto rilevanti. I redditi lordi delle lavoratrici sono pari in media a 18.016 euro rispetto ai 26.305 euro dei percettori maschi. Le lavoratrici, pur rappresentando oltre un terzo dei lavoratori autonomi (36,7%), producono complessivamente un reddito che ammonta a poco più di un quarto del totale (28,4%).
Marcate anche le differenze territoriali: come nel caso del lavoro dipendente, nel Nord-est i redditi da lavoro autonomo e anche i contributi sociali (rispettivamente 26.912 euro e 4.750 euro), risultano mediamente più elevati.
Carichi più bassi per gli agricoltori, più alti per imprenditori e liberi professionisti
L’incidenza delle imposte dirette sui redditi da lavoro autonomo, al netto dei voucher, rimane sostanzialmente invariata rispetto al 2015 (19,8% del reddito lordo al netto dei contributi sociali), includendo anche la stima dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap). Tuttavia, rispetto al 2015, diminuisce per gli autonomi che lavorano nel settore pubblico, dove si registra una riduzione dei redditi percepiti. Inoltre, fra il 2015 e il 2016, il peso delle imposte aumenta per commercianti e artigiani, che presentano un incremento di reddito, e diminuisce sensibilmente per gli agricoltori.
L’incidenza delle imposte cresce all’aumentare del livello di reddito. Presenta valori superiori alla media nazionale nel Nord-est (21,1%) e tra i lavoratori uomini (20,7%). Cresce inoltre con l’età del lavoratore, passando dal 14,9% per gli under 35 al 28,4% per chi ha più di 64 anni. Si rileva inoltre uno scarto importante tra laureati (23,5%) e chi ha un titolo di studio inferiore (16,7% per la licenza media inferiore).
Per gli autonomi che hanno lavoratori alle proprie dipendenze il peso delle imposte è maggiore di quasi 6 punti percentuali di quelli senza dipendenti (22,3% contro 16,4%); per coloro che lavorano a tempo pieno (30 ore e più alla settimana), l’aliquota supera di quasi 5 punti percentuali la tassazione di chi mantiene un orario ridotto (19,6% contro 14,7%).
Per quanto riguarda l’attività professionale, il carico fiscale è più contenuto per gli agricoltori (16,3%), supera il 17,5% per commercianti e artigiani e raggiunge il 21,2% per imprenditori, liberi professionisti e lavoratori in proprio. L’incidenza delle imposte risulta più elevata al Centro per gli artigiani e nel Nord per gli imprenditori mentre è più bassa per i percettori di reddito autonomo con cittadinanza straniera (-5,6 punti percentuali rispetto ai lavoratori autonomi italiani).
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