Dopo 8 giorni di colloqui, il Labour Jeremy Corbyn si dichiara “deluso dal governo” Tory sulla Brexit e lo accusa di “non aver offerto un reale cambiamento o compromesso”: “Sollecitiamo la premier – si legge in una nota in risposta a una lettera ricevuta da Theresa May – a muoversi verso un vero cambiamento del suo accordo e a sforzarsi di trovare un’alternativa che possa ottenere il sostegno del Parlamento e unificare il Paese”. Il partito di Jeremy Corbyn non dichiara chiuso il dialogo, ma fa sapere che ora la palla è alla premier.
Così Theresa May rompe gli indugi e scrive a Bruxelles per chiedere un altro rinvio della Brexit che – per quanto breve, fino al 30 giugno – la obbligherà ad avviare i preparativi per la partecipazione del Regno alle elezioni Europee a ben tre anni di distanza dal risultato del referendum che avrebbe dovuto in teoria sancire l’addio. Salvo interromperli se nel frattempo le riuscirà il miracolo di far passare nel Parlamento di Westminster un qualche accordo di divorzio: il suo, già bocciato a più riprese oppure quello di un compromesso con l’opposizione laburista di Jeremy Corbyn, del quale quest’ultimo dice peraltro di non vedere finora traccia. Il 10 aprile i 27 Paesi dell’Eu dovranno esprimenre il loro parere inappellabile su questo ulteriore cambio di rotta, ossia un’estensione,
una ‘flextention’ limitata, ma flessibile, della scadenza del divorzio.
“Il governo britannico vuole concordare una tabella di marcia che permetta al Regno Unito di ritirarsi dall’Ue prima del 23 maggio e così cancellare le elezioni parlamentari europee, ma continuerà a prepararsi responsabilmente per organizzarle se questo piano non si dimostrasse possibile”, premette la May dopo aver fatto riferimento alla richiesta del 30 giugno. Non senza ribadire di credere ancora di poter rompere lo stallo in casa sua: o trovando un “un approccio unico” concordato con il Labour nell’ambito dei colloqui previsti con Corbyn e il suo team fino a tutto il weekend, come Downing Street conferma stasera a dispetto del fatto che i laburisti si dicano “delusi” dei primi due giorni di dialogo; o altrimenti con l’offerta trasversale ai deputati di un voto multiplo su una serie di opzioni di via d’uscita e l’impegno dell’esecutivo a fare sua la più gradita. Strategie che Bruxelles si riserva di valutare, ma che vengono considerate già da più parti “insufficienti”, in mancanza di impegni meno vaghi e volatili.
“Saranno i leader dell’Ue al vertice di mercoledì a rispondere alla richiesta” di Theresa May, taglia corto il portavoce della Commissione, Margaritis Schinas, liquidando poi alla stregua di un’indiscrezione l’idea alternativa attribuita a Donald Tusk di una diversa e ben più lunga ‘flextension’: della durata di un anno – dal termine già fissato dal 12 aprile 2019 al 12 aprile 2020 – con possibile rinuncia in ogni momento. Un’ipotesi che non piace affatto a Parigi, dove l’Eliseo si affretta a far sapere di giudicare “prematura” anche la sola opzione di prendere in esame il rinvio corto evocato da Londra finché non emergerà un “progetto più chiaro”.
E nemmeno al premier olandese Mark Rutte. Mentre fra i governi più concilianti prevale la cautela: dall’Italia alla Germania, con il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas che parla di “questioni da precisare” e il portavoce di Angela Merkel che si limita a promettere tutto l’impegno possibile “per evitare una Brexit no deal”.
Jacob Rees-Mogg, capofila dei ribelli brexiteer ultrà nel Partito Conservatore della May, non esita ad avvertire Bruxelles delle conseguenze potenziali di un prolungamento del matrimonio: minacciando una strategia della paralisi con veti a raffica “su ogni incremento del bilancio, sul cosiddetto esercito europeo, sui piani integrazionisti del signor Macron”.
Scopri di più da WHAT U
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.