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TAYARI JONES VINCE IL PREMIO “WOMEN’S PRIZE FOR FICTION”


di Patricia Miller

Si chiama Tayari Jones la scrittrice americana, giunta al suo quarto romanzo, dopo avere scritto “Silver Sparrow, “The Untelling” e “Leaving Atlanta, vincitrice dell’edizione 2019 del Women’s Prize for Fiction conUn matrimonio americano, (titolo originale “An American marriage”), il libro edito in Italia da Neri Pozza, attraverso il quale  racconta l’ingiusta incarcerazione di un giovane uomo afroamericano, Roy, e delle devastanti conseguenze che ciò ha sul suo matrimonio. Già amato da lettori come Barack Obama e Oprah WinfreyUn matrimonio americano è stato selezionato come vincitore in una rosa di sei finalisti che includeva le opere di Pat Barker, Anna Burns (entrambe vincitrici del Premio Pulitzer), Madeline Miller, Diana Evans e Oyinkan Braithwaite.

Per saperne di più, What-u ha incontrato la scrittrice, Tavari Jones e l’ha intervistata in esclusiva, ecco che cosa ci ha raccontato.  

Una grande emozione vincere un premio così importante, come si sente in questo momento?

«Ancora emozionata e sorpresa perché era nella rosa dei 6 finalisti due dei quali avevano già vinto premi prestigiosi , quindi non pensavo di arrivare prima. Anche se ovviamente ci speravo».

Un sogno che si è avverato grazie al racconto di una storia molto particolare…

«Si è il racconto dell’ingiusta incarcerazione di un giovane uomo afroamericano, Roy, e delle devastanti conseguenze che ciò ha sul suo matrimonio. Roy e Celestial sono sposati da piú di un anno. Sono neri di Atalanta, convinti di avere tutta la vita davanti, regni sconfinati di pagine bianche ancora da scrivere. Roy non è certo un magnate, ma ha un lavoro tale da permettergli di accarezzare l’idea di comprare casa. Celestial fabbrica bambole considerate vere e proprie opere d’arte. Una sera dopo avere trascorso alcune ore a casa dei genitori di lui, Roy e Celestial decidono di trascorrere la notte al Piney Woods, l’unico hotel a Eloe. È il week-end del Labor Day e una meteora distruggerà la loro vita».  

Come le è nata l’idea di scrivere questo romanzo?

«Sono sempre stata sensibile a qualsiasi argomento legato alla detenzione, perché tanti sono stati gli errori giudiziari che hanno fatto incarcerare persone innocenti portate via dai loro padri, dalle loro madri, fratelli e sorelle. Ho cercato dati, statistiche sul tema e mi sono molto arrabbiata perché pur leggendo tanti numeri non riuscivo a scrivere nessuna storia sull’argomento. Poi un giorno in un supermercato mi è capitato di ascoltare per caso la conversazione di una coppia afroamericana, due giovani apparentemente non sposati da tanto tempo. Lei diceva a lui: “Non credo proprio che tu mi avresti aspettato per 7 anni” e lui rispondeva: “A te non sarebbe mai successo” e così ad un tratto, prendendo lo spunto da una situazione apparentemente non così particolare, ho trovato il link con la storia che volevo scrivere, e che mette su piani differenti bianchi e neri soprattutto dietro le sbarre».

Parlando di detenzione mi viene in mente il caso di O.J. Simpson (assolto il 3 ottobre 1995), dall’accusa dell’omicidio dell’ex moglie Nicole Brown Simpson e del cameriere Ronald Lyle Goldman, avvenuto il 12 giugno del 1994. Ebbe l’opportunità di godere di un’ottima difesa in tribunale. Quindi se sei ricco anche se sei di colore alla fine la differenza non la fa più il colore della pelle, ma quanti dollari hai nel portafoglio non crede?  

«Ma lui è l’ago nel pagliaio perché appartiene a una percentuale risicata di neri ricchi, circa l’1%. Negli Usa, nella maggior parte dei casi se sei in prigione è perché sei povero e di colore».  

Trump ha impostato la sua campagna elettorale sulla lotta agli immigrati illegali e ora il prossimo passo che farà sarà quello di attivare delle verifiche su tutto il territorio americano per rimandare al paese di origine chi non ha i documenti a posto anche a costo di dividere delle famiglie. Che cosa pensa di questa iniziativa?    

«Un’assurdità, un atteggiamento inconcepibile e che mi fa paura. Crudele, discriminatorio. Barack Obama rappresentava il simbolo della speranza del cambiamento. Trump mi spaventa. Separare padri e madri dai propri figli è terribile».  

Quali sono i momenti in cui lei ama dedicarsi alla scrittura o si è dedicata preferibilmente alla scrittura delle pagine del suo romanzo?

«Di prassi prediligo la mattina, quando ho la mente libera da pensieri, e non ho ancora elaborato nulla. Ma se mi viene l’ispirazione posso anche scrivere sui fazzoletti di carta. Ho 7 macchine da scrivere, tra le mie preferite ci sono una Olivetti e una Underwood, alla quali sono molto affezionata. Adoro le macchine da scrivere, in particolare quelle prodotte dal 1935 al 1947, le ritengo dei veri e propri capolavori d’arte».      

Le è mai capitato un momento di impasse durante la scrittura di questo libro?  

«Si, a 50 pagine dalla fine del libro sono andata un po’ in tilt. Prima mi sono messa nei panni del protagonista uomo, poi in quelli della donna, rincorrevo pensieri e riflessioni dell’uno e dell’altra, senza trovare la soluzione che cercavo per il finale. Poi ho riacceso i riflettori sul mio obiettivo. Volevo che il libro finisse con una nota positiva, di speranza, desideravo che lasciasse un messaggio importante per tutti, e poi l’ho trovato».  

Qual è la parte che le è piaciuta di più?  

«Quella delle lettere. Ho sempre amato i romanzi epistolari. Siamo in un’epoca dove la maggior parte della gente comunica solo con il cellulare. Stiamo perdendo molto sul piano umano.  Il tema delle carceri fa tornare in mente l’importanza della scrittura come unico mezzo di comunicazione con l’esterno e con i propri cari. E la prigione è rimasta uno dei pochi posti dove questa forma di comunicazione è tenuta ancora in vita».    

A proposito di macchine da scrivere, anche quella di Ernest Hemingway era un Underwood, una delle prime portatili prodotte in Usa, prima dell’acquisizione di Olivetti. Pensa di avere delle liaisons con questo scrittore?

«È stato uno scrittore fantastico, ma io ho una predilezione speciale per la scrittrice statunitense afroamericana Toni Morrison (N.d.R.: pseudonimo di Chloe Anthony Wofford), perché ha un immenso dono, ha la capacità di parlare di persone normali facendole sembrare fantastiche».



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