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HAI UN OBIETTIVO? DEVI FARE UNA SCELTA IMPORTANTE? E SE TI SERVISSE UN MENTAL COACH?


Cristiano Bonora, mental coach durante una lezione

di Marco Sanguineti

La scuola è iniziata più o meno da circa una settimana e già il pensiero corre alle attività extra scolastiche da scegliere per i propri figli. “Vorrei tanto che imparasse a nuotare”, “mi piacerebbe che facesse un corso di difesa personale”. Poi ci sono gli integralisti: o calcio o niente. Un altro aspetto che viene conseguentemente preso in considerazione è se optare per uno sport individuale, come per esempio il nuoto, dove ci si misura con se stessi, o di gruppo, come la pallavolo. Valutazioni all’apparenza semplici, ma che a volte non prendono davvero in considerazione tutte le dinamiche che si dovrebbero valutare. Assecondare un bambino al 100% significa correre il rischio a volte di legarsi solo a degli umori di passaggio. Perché il bambino si può innamorare delle arti marziali solo perché ha visto un film il cui protagonista era un combattente esperto. Se si opta per la strada opposta, ossia si decide per lui o per lei che cosa deve fare, gli si toglie l’opportunità di valutare i pro e i contro di quella scelta con il rischio di proiettare le nostre speranze o delusioni sul di lui o su di lei, come se fosse un prolungamento di noi stessi. Le scelte non sono difficili solo per i bambini perché anche per gli adulti, e non solo ovviamente quando si deve decidere quale sport fare. A volte ci si trova in situazioni dove ci sentiamo a un bivio, in amore, nel lavoro, nelle amicizie e non sempre abbiamo le idee chiare e gli strumenti per affrontare situazioni per noi molto importanti. E quando i famigliari o gli amici non bastano, o pensiamo che non possano proiettarci verso la scelta giusta da fare, un’alternativa potrebbe essere quella di rivolgersi a un mental coach. Per sapere che cosa fa un mental coach e che tipo di apporto può dare in certe situazioni, What-u ha intervistato un professionista del settore Cristiano Bonora.

Che cos’è un mental coach e quali sono i suoi compiti? 

«Un coach aiuta le persone a raggiungere i propri obiettivi. Sportivi, manager, studenti, persone ambiziose o disorientate, con un grande sogno o un grande problema: chiunque desideri prestazioni e risultati migliori di quelli presenti. Il coach non fornisce consigli o soluzioni, non è un consulente o uno psicologo, come neppure un guru o un insegnante di vita. È il professionista di un metodo dialettico che stimola la responsabilità, la fiducia, la consapevolezza circa i propri obiettivi e il modo in cui raggiungerli. Il suo strumento principale sono le domande, mai retoriche o guidate. Il coach non vuole spingerti in nessuna direzione, deve aiutarti a capire dove e come deciderai di andare tu. In ambito sportivo, al lavoro di consapevolezza si integrano esercizi di attivazione, rilassamento e concentrazione. L’atleta apprende così a propiziare le migliori condizioni fisico-emotive controllando pensieri e stati d’animo. Perché è vero che l’atleta lavora con il fisico, ma qualsiasi azione del corpo viene dettata dalla mente, ed è un controsenso evidente competere ad alto livello senza allenare entrambi. Purtroppo, in Italia è ancora la norma».

Quando e perché ha deciso di intraprendere questa strada? 

«È stato l’incrociarsi di diversi percorsi professionali. Quello nella formazione e quello sportivo. Il coaching nasce nello sport per poi diffondersi in azienda, dove ha trovato terreno fertile una disciplina per elevare le prestazioni, abbassare lo stress e raggiungere gli obiettivi. Io l’ho scoperto nel periodo in cui ero speaker e formatore per una nota multinazionale informatica. Da lì iniziai a praticarlo con i miei atleti (insegno Taekwondo presso il Centro Universitario Sportivo di Milano), oltre che su me stesso. Anni dopo concentrai il frutto di queste esperienze e ulteriori studi nei servizi di mentaltrainingitalia.com».

Quali sono state le difficoltà maggiori nell’approccio a questa professione? 

«Nell’abbattere i luoghi comuni. In Italia c’è ancora il pregiudizio secondo cui siano i pazzi a dover lavorare sulla mente. “Conosco questo tizio che è fuori di testa, te lo devo mandare”. No, grazie. Per i disturbi psichici serve un terapeuta. Io aiuto le persone sane a superare le indecisioni e rendere al 100%. Con le società sportive a volte, ma non sempre per fortuna, la difficoltà è nel comunicare l’opportunità di educare i ragazzi a un agonismo gioioso e non tossico. Lo sport è sano se praticato in modo sano, non quando devi a tutti i costi rimediare una medaglia per non sentirti un fallito. Così educhiamo i ragazzi all’ansia e all’inadeguatezza, non li prepariamo alle grandi sfide della vita».

In Italia pare non sia una professione ricorrente. E probabilmente non tutti possono praticarla quali sono a suo avviso i requisiti indispensabili per fare il mental coach? 

«In ambito sportivo, certe situazioni bisogna averle vissute. Da qualunque sport si venga, se non hai disputato una finale di un Campionato Italiano non sai cosa si provi. Non si studia sui manuali. L’ansia da gara è una belva subdola e spietata, solo chi l’ha “provata e addomesticata” può prestare un aiuto reale alle nuove generazioni di atleti. Per il coaching extra-sportivo, nel mio caso hanno giovato una sensibilità spiccata, il voler fare la differenza in positivo nella vita degli altri, una formazione approvata da un ente riconosciuto come International Coach Federation, un incessante lavoro su me stesso, sui miei pensieri e sulle mie emozioni, una laurea in lingue e un passato da traduttore. La comunicazione nel mio lavoro è tutto. Ogni seduta è per me una sfida a scegliere e usare con cura ogni singola parola. Le parole, come diceva Moretti, sono importanti. Nel coaching, sono decisive».

C’è chi potrebbe contestarle un approccio che si avvicina a quello degli psicologi nei confronti delle persone, lei cosa risponderebbe? 

«Che sono mestieri diversi. Come l’ingegnere e il pilota, anche se hanno entrambi a che fare con le automobili. Lo psicologo ti aiuta a fare ordine nel tuo passato. Il coach a migliorare le tue prestazioni nel presente. Il coach non fa né valutazioni né terapia. Il coach ti chiede e vuole sapere le tue valutazioni, e da quello che tu gli dici, ti aiuta a produrre risultati concreti».

Quali sono le persone più ostiche da trattare? 

«Il coach non è una figura medica, quindi non “tratta” le persone. Le segue, le accompagna, rimuovendo ostacoli e coltivando risorse . Ed è vero che effettivamente ci sono clienti che impegnano più di altri. A volte sono i più intelligenti e consapevoli, perché mettono sul tavolo una quantità enorme di riflessioni, aspirazioni e dubbi, in mezzo ai quali è più difficile ordinare priorità e ricavare obiettivi convinti. Ma alla fine ci si riesce sempre, ed è doppiamente gratificante, tanto per il coach, quanto per il “coachee”. Ci si impiega solo un pochino di più».

Cristiano Bonora, mental coach www.mentaltrainingitalia.com
www.tkdcusmilano.it

«Ci tengo a ribadirlo, un coach non è né un guru né un santone. Non dispenso verità in pillole, sarei un cialtrone se lo facessi. Sono solo il professionista di un metodo che ottimizza le prestazioni. A fare la differenza sono le risorse che sblocco, non le opinioni che esprimo»

Ci racconti un aneddoto che riguarda il tuo percorso professionale… 

«Per due anni ho seguito una squadra di Judo molto assortita per età e genere. Un giorno una giovanissima atleta era così nervosa da non riuscire a stare seduta ferma. Continuava a molleggiare sulle gambe, era più forte di lei. Senza dirle il motivo, a un certo punto le chiesi di trattenere il fiato per dieci secondi, e poi di godersi (sottolineo ‘godersi’) l’espirazione. E così ha fermato le gambe!. Chiederle di fare un bel respiro non sarebbe bastato: non è mai il respiro in sé, l’esercizio, la tecnica, a risolvere, ma l’uso che ne facciamo. Per sovvertire uno stato emotivo che arriva a condizionare il corpo non ci sono scorciatoie, serve individuare e coltivare un nuovo focus di benessere. Il calciatore terrorizzato all’idea di sbagliare un pallone non deve “tirar fuori gli attributi”, come vorrebbe certo analfabetismo sportivo, ha bisogno di riappropriarsi dei motivi per cui una volta quel pallone non vedeva l’ora di riceverlo. Io non contrasto l’ansia da gara con cantilene motivazionali, io favorisco la performance ottimale ricollegando l’atleta al piacere di fornirla, un piacere spesso sepolto sotto metri di ansia da risultato. Non si vince soltanto tenendo duro, a un certo punto la passione rivendica il suo spazio. Altrimenti corpo e mente finiscono per ribellarsi. E questo non vale solo per lo sport».

Secondo lei mai dire mai a che cosa? 

«Al farsi domande. Dovere di un coach è anzitutto diradare la nebbia dal perché facciamo quello che facciamo».

Il segreto del buon vivere? 

«Ci tengo a ribadirlo, un coach non è né un guru né un santone. Non dispenso verità in pillole, sarei un cialtrone se lo facessi. Sono solo il professionista di un metodo che ottimizza le prestazioni. A fare la differenza sono le risorse che sblocco, non le opinioni che esprimo».

Quali le situazioni e le persone da evitare? 

«La mia professione pone delle questioni di coerenza: non posso lavorare su autostima e motivazione altrui esponendomi poi io a situazioni che le danneggiano. Pertanto, negli anni ho imparato a evitare persone e situazioni da cui mi sentivo svilito. In tutte le relazioni, sono indispensabili ascolto, stima e supporto reciproci. Quando vengono meno, il tempo trascorso insieme svuota invece di arricchire».



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1 commento

  1. Ivan

    Molto interessante quando qualcuno lavora sulle persone, sulla mente e sulla comunicazione senza cedere a soluzioni facili. Nessuno slogan, nessuna “pillola di vita”, nessun “Manuale per diventare…”. Imparare a farsi domande, *prima* di cercare risposte, è una ricetta molto bella, soprattutto di questi tempi.

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