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A TU PER TU CON CARLO SERINI, MEDICO IN PRIMA LINEA CONTRO IL COVID-19


Carlo Serini, medico chirurgo, Specialista in Anestesia e Rianimazione, in forza al Servizio di Anestesia e Rianimazione del P.O. San Carlo Borromeo – ASST Santi Paolo e Carlo di Milano
(ph. What-u.com)

di Silvia Secchi

Carlo Serini, medico chirurgo, Specialista in Anestesia e Rianimazione, in forza al Servizio di Anestesia e Rianimazione del P.O. San Carlo Borromeo – ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, è uno di quei tanti medici impegnati in prima linea a combattere questo nemico di cui persino i bambini ora conosco il nome, il Coronavirus. Le ore che trascorre dentro l’ospedale sono quasi raddoppiate rispetto a prima. Tornare a casa oramai per lui è quasi un privilegio e inizio a comprendere ora il motivo di tanta attesa prima di riuscire a parlare con lui. Nessuna altezzosità solo tanto lavoro. “Come va?”, gli chiedo, e non perché questa sia una domanda che oramai viene spontaneo chiedere a chiunque, ma solamente perché percepisco dalle sue prime parole una certa stanchezza visto che la nostra telefonata inizia alle 22,30 e al termine di una sua lunga giornata di lavoro in ospedale. «Ho finito poco fa e anche oggi è stata una giornata molto impegnativa».

Visto che da giorni imperversa la polemica sulle mascherine arrivate non a norma gli chiedo se al San Carlo hanno avuto problemi di mancanza di sussidi sanitari e lui mi dice prontamente di no. Lasciandomi onestamente un po’ perplessa visto che in molti ospedali, soprattutto nel primo periodo di allerta, molti operatori del settore ne lamentavano la mancanza. E anche dopo, la situazione, tra una polemica e l’altra, non sembrava avere avuto un grande miglioramento. Sul fronte emergenza pazienti Covid in ospedale e sul numero di arrivi mi dice: «Dipende dalle giornate. E dall’evoluzione di ogni caso. Di prassi chi viene portato in ospedale perché ha sintomi da Covid-19, ossia febbre, tosse e difficoltà a respirare, è sempre valutato caso per caso, e se sussistono i criteri è trattenuto in ospedale. Il più delle volte si tratta di pazienti affetti da “ipossiemia” ossia da una anormale diminuzione dell’ossigeno contenuto nel sangue, determinata da una alterazione degli scambi gassosi che avvengono negli alveoli polmonari».

Come viene valutata l’ipossiemia?

«Viene valutata col valore di PaO2, che in condizioni normali deve essere superiore agli 80 mmHg».

Ce lo spieghi in parole meno tecniche…

«L’ipossiemia all’inizio viene testata con la pulsossimetria. La pulsiossimetria consente di misurare attraverso un apparecchio appunto chiamato pulsossimetro, la quantità di ossigeno legato all’emoglobina nel sangue. In questo modo si può ottenere una misura indiretta della quantità di ossigeno presente nel sangue. Questo esame rappresenta un ottimo test di screening per i disturbi respiratori e si esegue posizionando un piccolo sensore all’estremità di un dito. Normalmente l’ossigenazione del sangue deve avere un valore intorno al 97%. I pazienti con bassa saturazione di O2 di prassi devono eseguire una RX al torace, ma per i Covid basta un’ecografia polmonare, perché riesce comunque a evidenziare l’infezione in termini forse ancor più attendibili. E poi la prova madre è anche il tampone, ce ne sono di due tipo giusto? «Sì nasofaringeo e orofaringeo. Il test del tampone consiste nel prelievo, tramite un bastoncino cotonato di materiale biologico (secrezioni faringee) presente nelle prime vie respiratorie, cioè la zona migliore da analizzare per andare a indagare la presenza di eventuali agenti patogeni e virus. Dopo averlo accuratamente sigillato, il campione viene inviato direttamente a un laboratorio di microbiologia. Qui  viene sottoposto a una particolare procedura denominata Reazione a Catena della Polimerasi (Prc) che consente l’amplificazione del genoma dei microrganismi virali e l’individuazione di casi positivi da presenza di SARS Cov 2 (N.d.R. il nome del virus che dà la malattia chiamata COVID 19, Corona VIrus Disease scoperta nel 2019).  In caso di positività, il paziente se non presenta sintomi gravi viene rimandato a casa dove dovrà seguire attentamente le indicazioni di quarantena obbligatoria per 14 giorni. Al contrario, in presenza di difficoltà respiratorie gravi o di altro di indicativo dovrà essere ricoverato».

Una tigre del Bronx Zoo di Wildlife Conservation Society a New York si è rivelata positiva al Covid-19 pare sia stata infettata da un impiegato dello zoo che era “asintomaticamente infetto dal virus”, quindi è possibile che questo virus possa essere trasmesso anche ai nostri animali domestici o che viceversa loro possano trasmetterlo a noi?

«Ho letto questa notizia e sono rimasto molto colpito. È la seconda notizia che leggo dalle cronache di un’ infezione di un felino da parte umana e credo che sia un tema da approfondire con uno specialista virologo. Tuttavia, da semplice clinico, questo fatto sembra avvalorare molto la caratteristica di questo virus di mutare facilmente e di infettare diverse specie animali, com’è successo dai probabili pipistrelli all’uomo. Certo è che al momento non ci sono indicazioni per segregazioni di animali rispetto all’uomo, quindi possiamo continuare a tenerci i nostri animali domestici in casa, giocare con loro e coccolarli come abbiamo sempre fatto».

In questi giorni si parla molto di test sierologici, esami del sangue in grado di scoprire in fretta se una persona è già stata contagiata dal Coronavirus, è guarita e può tornare a una vita normale senza rischiare di ammalarsi o contagiare altre persone. Molte regioni stanno ricorrendo a questi test, con kit acquistati anche all’estero. Stati Uniti e nel Regno Unito li stanno usando per testare la popolazione. Il nostro ministero della Sanità ha però ricordato che non possono sostituire il test molecolare, perché non affidabili per una diagnosi di positività. Lei che cosa ne pensa?

«Ogni analisi di laboratorio ha delle indicazioni e dei limiti. La ricerca di materiale genetico su tampone conferma la presenza del patogeno, la ricerca degli anticorpi su prelievo di sangue conferma l’avvenuta infezione e successivamente la risposta immunitaria del contagiato. La reazione patogeno-ospite è un po’ complicata, a volte un patogeno può essere presente senza causare malattia… ma si entra in un discorso specialistico. Le analisi volte ad identificare le immunoglobuline post infezione sono già disponibili, anche se non come esame di massa e certamente presto saranno diffuse ed utilizzate ampiamente».

E del cerotto vaccino? Ossia un cerotto di un centimetro e mezzo con 400 piccoli aghi che potrebbe essere il vaccino che fermerà la corsa letale del Coronavirus?

«È una immagine molto suggestiva, 400 aghetti richiamano alla mente quando si tagliuzzava una piccola superficie del braccio dei bambini per la vaccinazione antivaiolosa (N.d.R. ecco il perché della cicatrice sul deltoide). Ora come sarà inoculato il vaccino, quando ci sarà, poco importa: l’importante è che arrivi presto, confidiamo sul buon esito della sfida mondiale che si è scatenata tra tutti gli scienziati e ricercatori sull’argomento».

E sulla necessità tanto dibattuta di fare tamponi a tappeto per individuare gli asintomatici?

«Trovo che sia molto impegnativo: ci vorrebbe un esercito di persone che fanno i prelievi, poi i tamponi vanno processati insomma la trafila è molto impegnativa in questo momento in cui i medici e gli operatori sanitari sono impegnati tutti in prima linea. Certo che se questa sarà la linea individuata dalle nostre autorità sanitarie, sarà da mettere in pratica subito».

Come fa a replicarsi così velocemente questo virus?

«Un virus ha una capacità replicativa di circa 1.000-10.000 volte in dieci ore, un numero impressionante. Proprio da questa considerazione parte l’uso di “virale” per ogni post di successo su un social… Teniamo conto che un virus non ha una capacità replicativa autonoma, ma per riprodursi ha bisogno della struttura biologica di una cellula ospite: la invade, ne usa le strutture replicative cellulari deviandole dal loro normale lavoro, e nei casi più fortunati se ne esce lasciando la cellula ancora funzionante, in molti altri la distrugge completamente uccidendola».

Sul fronte dei contagi, la cittadina di Vo’ Euganeo ha registrato una percentuale altissima di soggetti asintomatici, tra il 50 e il 75% quindi facendo due conti in media se in Lombardia ci fossero 1000 infetti, asintomatici?

«Ci sono stati, che io sappia, solo due popolazioni integralmente analizzate per l’infezione da Coronavirus; Vò Euganeo e la nave Diamond Princess. Probabilmente quella è la vera percentuale di contagiosità e di malattia che il virus SARS Cov 2 scatena. È certo che in Lombardia, così come nel resto d’Italia, per ogni contagiato certo (N.d.R. le diagnosi di infezione fatte col tampone) ci sono moltissimi casi non identificati né confermati, ma sicuramente presenti. Alcuni studiosi moltiplicano il numero dei contagiati certi addirittura per 50 per avere una reale diffusione del virus in comunità».

Si è parlato di medicinali che potrebbero essere usati per uso diverso dalla ragione per i quali sono stati creati, come per esempio la clorochina o altri anti-malarici o anti-AIDS per combattere il Corona virus. Lei che cosa ne pensa?

«L’attuale terapia si basa su un vecchio farmaco usato come antimalarico e come antiinfiammatorio in malattie autoimmuni, l’idrossiclorochina; non a caso tutta la produzione del farmaco è stata requisita dal SSN, e in farmacia se ne trova pochissimo. Ulteriori aspettative, in via sperimentale, arrivano dal Tocilizumab, un inibitore dell’Interleuchina 6, citochina il cui rialzo esagerato causa una severa infiltrazione cellulare proprio nei polmoni; si è sperimentato anche l’uso di farmaci antiretrovirali, quelli per curare l’HIV per intenderci, ma poi si è capito che era meglio riservarli alla fase precedente alla terapia intensiva; per utilizzare alcuni di questi si è ricorso all’ “uso compassionevole”, una dicitura usata in assenza di autorizzazioni di impiego per quella certa malattia, ma verosimilmente promettente».

Un suo collega medico, Matteo Bassetti, infettivologo, del San Martino di Genova, ha messo in relazione inquinamento, il poco rispetto che l’uomo ha avuto finora verso l’ambiente con l’alto grado di incidenza del virus nelle zone più popolose e trafficate. È d’accordo?

«Nutro sempre la massima considerazione per le opinioni di tutti; non ho elementi per confermare od avvallare questa ipotesi, che mi sembra tuttavia più ideologica che oggettiva, allo stato attuale delle conoscenze. L’inquinamento segue le zone più industrializzate ed inurbate, quindi le più popolate; si sa che il virus usa le gambe umane per diffondersi… e più umani ci sono più è alto il rischio del contagio».

Il nostro lockdown durerà fino al 13 aprile. Lei pensa che sarà verosimile tornare gradualmente alla normalità dopo quella data?

«Lo trovo difficile, certo la gente non potrà restare chiusa in casa per mesi, ma di sicuro questo passaggio dovrà essere graduale e poi dovrà avvenire mantenendo d’obbligo certe precauzioni».

Il suo “Mai dire mai”è per cosa?

«In questo caso, fino al vaccino… mai dire di essere al sicuro da questa pestilenza!»

Una grande soddisfazione che le ha regalato questa esperienza di lotta contro il Coronavirus?

«Vedere che nessuno si è tirato indietro, sono un veterano del mestiere e in tutti questi anni non ho mai visto un spirito di corpo così coeso, ne sono rimasto davvero colpito».



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