di Patricia Sinclair
Spesso i bambini riescono a dire cose la cui portata ad un tratto sembra che cambi tutto, in modo repentino, esattamente come il grande evento che ha preceduto le loro parole, stravolgendo la loro routine e le loro certezze. “Voglio che la gente sappia che mi manca papà”, queste le parole di Gianna Floyd, la figlia di sei anni di George, durante un’intervista con Abc, seguite da quelle della madre Roxie Washington che imbarazzata ha confessato di non aver ancora trovato le parole giuste per spiegare alla bambina come suo padre è morto. “Non sa ancora cosa è successo. Le ho detto che suo padre è morto perché non poteva respirare”, spiega Washington. Così ad un tratto, per qualche minuto, l’attenzione dei media non è più su George, su quello che ha fatto nella sua vita prima di morire su cui molti hanno indagato, per cercare un appiglio e giustificare così la triste fine che ha fatto, ma su questa piccolina, che anche in una precedente intervista, è stata più grande di tutti dicendo: “Da grande vorrei fare il medico, così posso aiutare gli altri”.
“Voglio giustizia per George. Voglio giustizia per George perché era buono”, ha detto con un filo di voce Roxie, durante la sua prima conferenza stampa che rappresenta anche la sua prima apparizione pubblica. Accompagnata da Gianna, la donna, visibilmente commossa, ha parlato a lungo con i i giornalisti del suo rapporto con il 46enne afroamericano ucciso lunedì scorso a Minneapolis, al termine del weekend per il Memorial Day, durante un fermo di polizia e dopo che un agente bianco, Derek Chauvin, gli ha premuto il suo ginocchio sul collo per quasi nove minuti. “Lo hanno strappato alla nostra piccola. Alla fine loro torneranno a casa dalle loro famiglie. Gianna non ha più un padre. George non la vedrà mai crescere, laurearsi e non l’accompagnerà mai all’altare. Volevo che tutti sapessero che questo è quello che gli agenti si sono presi”. Roxie ha anche raccontato che George, ha pure una figlia di 22 anni avuta da una precedente relazione, e ha spiegato che si era trasferito da Houston, in Minnesota in cerca di migliori opportunità di lavoro. “Ha sempre contribuito economicamente alla crescita della bimba alla quale era molto legato”, ci ha tenuto a precisare.
Intanto, continuano le proteste in tutti gli Stati Uniti dopo la morte di Floyd, giunte ormai all’ottavo giorno consecutivo. Da New York a Washington, ancora una volta migliaia di manifestanti hanno sfidato il coprifuoco in diverse città statunitensi per protestare contro la brutalità della polizia e il razzismo. A Los Angeles migliaia di persone si sono radunate sotto la casa del sindaco, Eric Garcetti, dove pure sono state arrestate centinaia di persone. In Virginia, per la precisione a Richmond, un ufficiale della polizia ha negato di avere sputato su un manifestante arrestato, ma la pubblicazione del video che mostra il presunto incidente poi condiviso sui social media sembra dargli torto. I colleghi poliziotti hanno cercato di ‘salvarlo’ dalla gogna mediatica, spiegando che tutti gli ufficiali hanno tossito e sputato frequentemente a causa dell ‘”esposizione ai gas lacrimogeni”, durante le manifestazioni in città. Ma questa versione ha convinto molta poca gente.
Anche la First Lady Melania Trump ha fatto un appello ai manifestanti con due tweet su Twitter. Il primo scritto il 29 maggio: “Il nostro paese consente proteste pacifiche, ma non vi è motivo di violenza. Ho visto i nostri cittadini unificarsi e prendersi cura gli uni degli altri attraverso COVID19 e non possiamo fermarci ora. Le mie più sentite condoglianze alla famiglia di George Floyd. Come nazione, concentriamoci su pace, preghiere e guarigione”. Il secondo il 1 giugno: “Rammaricata di vedere il nostro paese e le nostre comunità danneggiate e vandalizzate. Chiedo a tutti di protestare in pace e di concentrarsi sulla cura reciproca e sulla guarigione della nostra grande nazione”. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha detto che la morte di George Floyd è “ingiustificabile” e capisce perché le persone protestano.
Nei suoi primi commenti pubblici sui tumulti che hanno turbato gli Stati Uniti, Johnson ha detto ai legislatori che “ciò che è accaduto negli Stati Uniti è stato spaventoso, è ingiustificabile, l’abbiamo visto tutti sui nostri schermi e capisco perfettamente il diritto delle persone a protestare per quello che è successo.”
Facebook, sciopero “virtuale” per 600 dipendenti per protestare dopo le parole di Zuckerberg sul caso Floyd
Non solo lungo le strade, ma anche nelle stanze di Facebook va in scena la protesta di circa 600 dipendenti contro il comportamento del loro datore di lavoro, Mark Zuckerberg, fondatore della nota piattaforma, reo, a loro avviso, di avere preso le distanza dallo scontro tra Twitter e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, motivo che li ha spinti a prendere parte allo “sciopero virtuale”, #TakeAction, contro la politica tenuta da Facebook nei confronti dei contenuti pubblicati dal presidente americano, che evidentemente non vengono messi al setaccio, come tutti gli altri post scritti dai comuni mortali iscritti alla piattaforma. Nello specifico, fortemente criticata è stata la mancata segnalazione della piattaforma di un post del presidente americano, attraverso il quale, dopo gli scontri e le violenze nate a Minneapolis in seguito alla morte dell’afroamericano George Floyd, aveva minacciato di inviare la Guardia Nazionale se le violenze non avessero avuto fine, aggiungendo: “In caso di saccheggi si inizia a sparare”. “Prendo le distanze criticando tra l’altro social di voler “essere arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online”, queste le prime parole a caldo di Zuckerberg.
Twitter, invece per niente intimorito dall’ordine esecutivo firmato da Trump, voluto dal medesimo per togliere ai Social lo scudo penale, ossia la protezione penale che li preserva da cause dirette per i contenuti scritti nei post che vengono pubblicati, ha conquistato addirittura il primato di essere stata la prima piattaforma Social ad avere di fatto ‘bannato’ un presidente degli Stati Uniti. Motivo per cui è stata osannata a suon di “ola” e “chapeu”.
La differenza non la fa solo il colore della pelle, ma il fatto di essere ricchi o poveri
Lo ha spiegato bene lo Spiegone.com nel marzo dello scorso anno. “Nonostante le grandi battaglie portate avanti a partire dagli anni ’60 e i tanti passi avanti, negli Stati Uniti vi è ancora una forte disuguaglianza etnica e razziale che caratterizza alcuni strati della popolazione. Tali lacune si sviluppano in diversi punti e modalità, articolandosi all’interno del quadro sociale e toccando temi quali il lavoro, la salute e la ricchezza. Tale disuguaglianza crea squilibri in termini economici e sociali molto gravosi per un buono sviluppo della società, anche e specialmente in prospettiva futura, con i neri e gli ispanici che risultano essere i più colpiti da queste differenze. Il gap fra i vari gruppi etnici è infatti tuttora in crescita. Analizzando i numeri è possibile sin da subito notare la sperequazione fra le parti. Meno della metà delle famiglie nere (41%) e delle famiglie ispaniche (45%) sono proprietarie delle abitazioni in cui vivono. Al contrario, la percentuale delle famiglie bianche proprietarie di abitazioni staziona al 71% del totale. Se consideriamo che il patrimonio netto di una famiglia o un individuo è dato dal valore delle cose che si possiedono a cui si sottraggono i propri debiti, il dato sulle case ci aiuta a fotografare un primo quadro differenziale fra le parti prese in questione. Possedere una casa inoltre permette di ricevere utili sgravi fiscali, mentre entrare nel mercato degli affitti ovviamente rende l’ascesa sociale complicata. Fra le famiglie nere o ispaniche, una su sei spende più del 50% del proprio reddito in alloggi, rimanendo perciò con poche risorse da poter investire su altri aspetti della vita come l’educazione dei figli e l’assistenza sanitaria. Il persistente divario degli utili nell’ultimo decennio ha poi reso ancora più difficile questa situazione, distanziando sempre di più afroamericani e ispanici dalla popolazione bianca”. Difatti il divario tra il guadagno tra gli uomini neri, ispanici, i nativi americani e i bianchi è notevole. “Nel 2010, i guadagni mediani per i maschi neri erano del 32% inferiori rispetto ai guadagni mediani per le loro controparti bianche. Il divario di guadagno tra gli uomini bianchi e quelli ispanici è cresciuto dal 29 al 42% tra il 1970 e il 2010. A partire dal 1980, le disparità razziali ed etniche riguardanti la povertà negli Stati Uniti sono rimaste in gran parte invariate, dando luogo all’idea che esistano “due Americhe“. Mentre i neri, gli ispanici e i nativi americani hanno maggiori probabilità di diventare poveri, al contrario gli asiatici e i bianchi hanno maggiori probabilità di vivere agiatamente. Un nero su quattro, un nativo americano su quattro e un ispanico su cinque sono classificati come poveri. Al contrario, solo uno su dieci bianchi e uno su dieci asiatici sono poveri”. E cosa dire delle condizioni lavorative? “Il tasso di occupazione per gli uomini afroamericani è stato inferiore di 11-15 punti rispetto a quello dei bianchi in ogni mese dal gennaio 2000. Durante l’ultima grande crisi, inoltre, i tassi di occupazione degli uomini afroamericani sono diminuiti ulteriormente e hanno recuperato più lentamente rispetto ai tassi dei bianchi. Anche gli sbocchi occupazionali possibili sono molto diversi, poiché a causa delle minori risorse a disposizione le minoranze fanno maggiormente fatica a costruirsi una carriera uguale o superiore a quella della maggioranza bianca. Quindi, nella maggior parte dei casi, questa porzione della popolazione si trova a svolgere lavori con una retribuzione inferiore”. Anche dal punto di vista sanitario la situazione non cambia. L’accessibilità e le differenti condizioni ovviamente incidono in maniera rilevante, con la popolazione bianca che grazie a possibilità mediamente superiori riesce ad accedere ai servizi sanitari con maggiore facilità. Circa 1/5 della popolazione americana non possiede infatti un’assicurazione sanitaria attraverso cui beneficiare di cure necessarie. Tra questi la maggioranza appartiene alle minoranze etniche. Molte di queste persone non possono quindi curarsi nelle strutture preposte, con la spesa dei medicinali che grava fortemente sulle finanze familiari. Ecco perché il tema della ricchezza va considerato un tema fondamentale da analizzare.
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