Battuta d’arresto per il processo a carico dei quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, brutalmente torturato e infine ucciso il ricercatore Giulio Regeni nel 2016. I giudici della III corte d’Assise, dopo cinque ore di camera di consiglio, hanno annullato il rinvio a giudizio disposto dal gup nel maggio scorso rinviando gli atti per cercare di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati. Il rischio sarebbe la nullità del procedimento.
Il nodo sulla presenza del generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif si annunciava complesso. A parere della Corte d’assise di Roma “il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all’udienza preliminare mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento”. Si riparte quindi dall’udienza preliminare. Il giudice dovrà utilizzare tutti gli strumenti, compresa una nuova rogatoria con l’Egitto, per rendere effettiva e non solo presunta la conoscenza agli imputati del procedimento a loro carico. Fonti di procura esprimono amarezza e sorpresa mentre i familiari di Giulio, presenti in aula, non si dicono rassegnati: è “solo una battuta d’arresto, premiata la prepotenza egiziana”. Presenti in aula anche i genitori di Giulio. Il governo italiano si è costituito parte civile.
L’omicidio
Il 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano inviò alle 19:41 un SMS alla fidanzata in Ucraina, dicendo che stava uscendo. Poco dopo, la studentessa Noura Wahby, amica di Regeni conosciuta nel 2014 a Cambridge, denunciò sul proprio profilo Facebook la scomparsa del ricercatore il quale, qualche ora prima, doveva incontrare delle persone in piazza Tahrir per festeggiare il compleanno di un amico. Durante i giorni della scomparsa vennero lanciati su Twitter gli hashtag #whereisgiulio e #جوليو_ـفين (letteralmente: #doveègiulio).
Il corpo nudo e atrocemente mutilato di Giulio Regeni fu trovato il 3 febbraio 2016 in un fosso lungo la strada del deserto Cairo-Alessandria, alla periferia del Cairo. La ministra Federica Guidi, che in quel momento si trovava in Egitto in missione diplomatica con un gruppo di imprenditori, interruppe immediatamente la visita e rientrò in Italia.
Il corpo recuperato mostrava segni evidentissimi di torture: contusioni e abrasioni in tutto il corpo, come quelle tipicamente causate da un grave pestaggio, lividi estesi compatibili con lesioni da calci, pugni e aggressione con un bastone. In più due dozzine di fratture ossee, tra cui sette costole rotte, tutte le dita di mani e piedi, così come entrambe le gambe, le braccia e scapole, oltre a cinque denti rotti. E poi coltellate multiple sul corpo, comprese le piante dei piedi, probabilmente inferte con un rompighiaccio o uno strumento simile a un punteruolo. E altri numerosi tagli, su tutto il corpo, causati da uno strumento tagliente simile a un rasoio ed estese bruciature di sigarette, nonché una bruciatura più grande tra le scapole e incisioni somiglianti a vere e proprie lettere. E segni di scosse elettriche somministrate ai genitali. L’esame autoptico rivelò un’emorragia cerebrale e una vertebra cervicale fratturata a seguito di un violento colpo al collo, verosimile causa della morte. In poche parole quella di Giulio è stata una morte orribile.
Subito dopo il ritrovamento del corpo, il generale Khaled Shalabi (direttore dell’amministrazione generale delle indagini di Giza) dichiarò che Regeni era stato vittima di un semplice incidente stradale, smentendo inoltre che vi fossero tracce di proiettili o accoltellamenti. In seguito la polizia egiziana sostenne che l’omicidio poteva essere avvenuto per motivi personali dovuti a una presunta relazione omosessuale (Regeni tuttavia aveva una fidanzata) oppure allo spaccio di stupefacenti (Regeni tuttavia non aveva mai utilizzato alcuna droga, come confermato dall’autopsia), ma non mancarono ipotesi, non suffragate da alcuna prova, secondo cui Regeni sarebbe stato ucciso da appartenenti a qualche baltagiya, assoldati dagli organismi del controspionaggio egiziano.
Le autorità egiziane in principio dissero che erano disponibili a offrire “piena collaborazione”, ma questa disponibilità fu presto smentita: gli investigatori italiani poterono interrogare pochi testimoni per alcuni minuti, dopo che gli stessi erano già stati interrogati per ore dalla polizia egiziana; le riprese video della stazione della metropolitana dove Regeni era stato visto per l’ultima volta furono cancellate; furono negati i tabulati telefonici del quartiere dove viveva Regeni e della zona in cui fu ritrovato il corpo. Insomma un vero e proprio depistaggio. I medici egiziani e italiani condussero autopsie separate sul corpo di Giulio Regeni.
La relazione ufficiale forense egiziana del 1º marzo 2016 (dossier di 91 pagine consegnato all’ambasciata italiana al Cairo il 2 marzo) fece luce sui fatti lasciando emergere la verità ossia che il ricercatore italiano fu interrogato e torturato per un massimo di sette giorni a intervalli di 10-14 ore prima di essere infine ucciso. L’uccisione sarebbe avvenuta circa 10 ore prima del ritrovamento del corpo.
Il funerale del giovane ricercatore italiano si sono svolti a Fiumicello il 12 febbraio 2016
Per favorire le indagini, gli amici e parenti di Giulio Regeni hanno consegnato i propri telefoni cellulari e computer portatili alla polizia italiana, mentre la famiglia Regeni ha consegnato il computer del figlio, ritrovato nell’appartamento del Cairo, da cui è risultato che nei giorni precedenti alla scomparsa era stato molto utilizzato, segno che il ragazzo era rimasto in casa.
Nel settembre 2016 il governo egiziano ha accettato di consegnare i tabulati di telefonia mobile, mentre i pubblici ministeri egiziani in visita a Roma hanno ammesso per la prima volta che Regeni era stato in effetti sottoposto a indagini e sorveglianza da parte della polizia egiziana prima della sua scomparsa, ma senza riscontrare problemi alla sicurezza nazionale.
Il 24 marzo 2016 la polizia egiziana ha ucciso in una sparatoria quattro uomini, inizialmente indicati come probabili responsabili del sequestro di persona a danno di Regeni. Il Ministero dell’Interno egiziano, tramite un post sul proprio profilo ufficiale su Facebook, ha affermato che la banda criminale uccisa era specializzata nei rapimenti di cittadini stranieri al fine di estorcere loro denaro.
Durante l’operazione in cui è stata sgominata la banda, la polizia egiziana ha ritrovato una borsa di colore rosso con il logo della Federazione Italiana Giuoco Calcio nella quale erano contenuti vari oggetti, di cui alcuni effettivamente appartenuti a Regeni: il passaporto, i tesserini di riconoscimento dell’Università di Cambridge e dell’Università Americana del Cairo, oltre alla carta di credito; nella foto postata è presente anche un pezzo di hashish, che sembrava avvalorare la tesi egiziana dell’uccisione per motivi di droga; tuttavia, sia i familiari sia i periti dell’autopsia hanno escluso che il ricercatore facesse uso di stupefacenti.
In seguito, l’ufficio del procuratore di Nuovo Cairo ha negato che la banda criminale fosse coinvolta nell’omicidio. Successivamente alla consegna dei tabulati telefonici, è stato appurato che il capo della banda criminale si trovasse distante oltre 100 km dal Cairo nei giorni della sparizione di Regeni. I familiari delle vittime hanno smentito la ricostruzione della sparatoria durante il blitz, in quanto i presunti malviventi furono uccisi dalla polizia a bruciapelo o a breve distanza.
Chiusura delle indagini preliminari e rinvio a giudizio
Il 10 dicembre 2020 la procura della Repubblica di Roma ha chiuso le indagini preliminari. Il 25 maggio 2021 sono stati rinviati a giudizio i seguenti quattro ufficiali della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano:
- generale Tariq Sabir
- colonnello Athar Kamel
- colonnello Usham Helmi
- maggiore Magdi Sharif
I reati contestati comprendono il sequestro di persona pluriaggravato, il concorso in lesioni personali gravissime e l’omicidio, ma non il reato di tortura perché quest’ultimo è stato introdotto nel codice penale italiano solo nel 2017. Tuttora i quattro ufficiali indagati risultano irreperibili perché la magistratura egiziana non ne ha fornito gli indirizzi di residenza, né ha concesso ai magistrati italiani di essere presenti agli interrogatori degli indagati stessi, nonostante questi quattro indiziati siano stati iscritti nel registro degli indagati nel dicembre 2018 e nonostante le richieste dalla procura di Roma inoltrate già con la rogatoria del 5 maggio 2019.
Il movente del violento interrogatorio e dell’omicidio, secondo la procura di Roma, fu il sospetto, del tutto infondato, da parte degli agenti egiziani che Giulio Regeni volesse finanziare una rivoluzione
Nel settembre 2017 il legale egiziano che seguiva il caso per conto della famiglia, Ibrahim Metwaly, è stato incarcerato in Egitto con l’accusa di voler sovvertire il governo di al-Sisi.
Accuse al governo egiziano
I servizi di sicurezza del governo di al-Sisi, così come lo stesso governo egiziano, sono accusati di avere avuto un ruolo chiave nell’omicidio del giovane ricercatore, potendo nutrire le ragioni di un eventuale movente nell’attività di ricerca di Regeni. La polizia del Cairo aveva già svolto indagini sul ragazzo nei giorni 7, 8 e 9 gennaio su esposto del Capo del sindacato dei venditori ambulanti. I media e il governo dell’Egitto hanno respinto l’accusa di coinvolgimento nell’omicidio, sostenendo invece che gli agenti segreti sotto copertura appartenenti ai Fratelli Musulmani avrebbero effettuato il crimine al fine di mettere in imbarazzo il governo egiziano e destabilizzare i rapporti tra Italia ed Egitto.
Il generale Khaled Shalabi, uno dei principali investigatori egiziani, è una figura controversa, poiché già negli anni Duemila risultava condannato per rapimento e tortura, ottenendo però la sospensione condizionale della pena.
Nella notte tra il 24 e il 25 aprile 2016 le forze speciali della polizia egiziana hanno arrestato il consulente egiziano della famiglia Regeni, Ahmed Abdullah, presidente dell’organizzazione non governativa “Commissione egiziana per i diritti e le libertà”, con l’accusa di sovversione e terrorismo.
Nel dicembre 2016 è stato accertato che Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti oggetto della ricerca universitaria e incontrato per la prima volta da Giulio il 13 ottobre 2015, aveva denunciato Giulio Regeni alla polizia di Gyza il 6 gennaio e lo aveva seguito fino al 22 gennaio, ovvero tre giorni prima della scomparsa del ricercatore italiano, comunicando alla polizia tutti gli spostamenti.
Un testimone ha parlato a maggio 2019 e ha detto che era in un caffè a Nairobi, capitale del Kenya, nell’agosto 2017, dove ha sentito funzionari egiziani discutere del caso “ragazzo italiano” in arabo. Dopo aver spiato uno scambio di biglietti da visita, venne a sapere che l’agente che sosteneva di essere stato coinvolto personalmente nel rapimento e nella morte di Giulio Regeni era, in effetti, il maggiore Majdi Ibrahim Abdel-Al Sharif, 35 anni. Secondo il loro resoconto, credevano che Regeni fosse una spia britannica e che l’ufficiale affermasse che avrebbe dovuto colpire e schiaffeggiare Regeni dopo averlo caricato sul furgone della polizia, sebbene non avesse menzionato nulla sulla brutalizzazione e la morte dello studente.
Disaccordi fra magistratura italiana ed egiziana
Il procuratore generale de Il Cairo, Hamada al Sawi, subentrato a Nabeel Sadek per nomina diretta del presidente al-Sisi nel settembre 2019, aveva detto di essere in disaccordo con i colleghi della procura di Roma, e che le prove a carico degli agenti dei servizi segreti egiziani erano insufficienti. I militari indagati sono stati ascoltati dalla magistratura egiziana ed hanno negato ogni fatto, compresi quelli che i magistrati italiani ritengono “oggettivamente provati”. Oggi non erano presenti al processo, l’ennesimo tentativo, di mettere i bastoni fra le ruote alla giustizia italiana. Ma oramai il velo dell’omertà si è rotto.
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