Lo dice Istat, il nostro Paese sul fronte dei servizi all’infanzia è sotto il target europeo per varie ragioni. Alla fine del 2019, sul territorio nazionale erano circa 13.834 i servizi educativi per la prima infanzia con oltre 361 mila posti autorizzati (circa la metà nel settore pubblico). Nel 2021, un’indagine ad hoc di Istat, ha evidenziato aumenti generalizzati sia dei costi di gestione delle strutture (85% dei casi), sia dei costi straordinari (88%). A fronte delle criticità riscontrate, il 55% dei gestori ha ricevuto contributi straordinari dal settore pubblico e circa il 62% ha attivato ammortizzatori sociali come la Cassa integrazione o il Fondo d’integrazione salariale. Questo in sunto sono i dati che offrono una fotografia dei servizi socio-educativi per la prima infanzia per i bambini dai 3 mesi ai 3 anni, composto dai nidi d’infanzia, presenti in 55 Comuni e dai nidi d’infanzia nei luoghi di lavoro, dove si trovano in strutture destinate all’accoglienza dei più piccoli all’interno delle aziende o nelle immediate vicinanze.
L’offerta si compone principalmente di nidi d’infanzia (78,8%), ovvero gli asili nido istituiti nel 1971 (Legge 1044/71). I posti rimanenti sono in parte nelle sezioni primavera (12,6%), che accolgono bambini dai 24 ai 36 mesi e si collocano prevalentemente nelle scuole d’infanzia, in parte nei servizi integrativi per la prima infanzia (8,6%), che comprendono le tipologie degli spazi gioco, dei centri per bambini e genitori e dei servizi educativi in contesto domiciliare.
In lieve incremento, dal 25,5% dell’anno educativo 2018/2019 al 26,9% del 2019/2020, la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti da 0 a 2 anni, sia per l’aumento dell’offerta complessiva e sia per la riduzione dei bambini sotto i tre anni (dovuta al calo delle nascite).
Offerta sotti i parametro UE
Nonostante i segnali di miglioramento, l’offerta si conferma ancora sotto il parametro Ue pari al 33% di copertura dei posti rispetto ai bambini. Questo era il target da raggiungere entro il 2010, stabilito nel 2002 in sede di Consiglio europeo di Barcellona, a sostegno della conciliazione tra vita familiare e lavorativa e della maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Ampi divari territoriali si registrano sia al Nord-Est sia nel Centro Italia. Come anche nel Nord-ovest che è sotto, ma non lontano dall’obiettivo (31,4%) mentre il Sud (14,5 %) e le Isole (15,7%), pur in miglioramento, risultano ancora distanti dal target.
Le regioni più virtuose
A livello regionale i livelli di copertura più alti si registrano in Valle D’Aosta (43,9%), seguita da diverse regioni del Centro-nord, tutte sopra il target europeo. Dal 2019 anche il Lazio e il Friuli-Venezia Giulia superano il 33% (rispettivamente 34,3% e 33,7%). Sul versante opposto Campania e Calabria sono ancora sotto l’11%. I capoluoghi di provincia hanno raggiunto nel loro insieme una media del 34,8% di copertura. Tutti gli altri comuni si attestano in media a 23,7 posti per 100 residenti sotto i 3 anni. Tra i comuni centro delle aree metropolitane del Centro-nord, le città di Firenze, Bologna e Roma si collocano sopra il 45% di copertura, seguite a poca distanza da altre città metropolitane e, in netto distacco, da quelle del Sud e delle Isole, dove la copertura non raggiunge il 20% (a eccezione di Cagliari).
Le aree metropolitane più coperte
Alcune aree metropolitane riescono a garantire un buon livello di copertura anche nei comuni
periferici: è il caso di Bologna, Firenze, Milano e Genova. I comuni periferici dell’area metropolitana di
Roma, invece, si differenziano notevolmente dal centro dell’area, con una copertura del 23,6%.
Nel Sud e nelle Isole la crescita maggiore di posti, ma resta il gap
Nonostante lo scarto dal Centro-nord, nel Sud e nelle Isole si registra l’incremento più significativo di
posti nei servizi educativi, rispettivamente +4,9% e +9,1%, contro +1,5% nazionale. I posti aumentano
principalmente nel settore privato (da 9.806 a 12.031) e nelle sezioni primavera (da 2.161 a 4.606).
L’incremento nel Mezzogiorno è il risultato delle misure statali adottate nel corso degli anni a sostegno
del riequilibrio dei divari territoriali. I servizi educativi per la prima infanzia sono tra i settori prioritari di
intervento dei PAC (Piani di azione per la coesione) avviati dal 2012 dal Ministero per lo sviluppo e la
coesione, d’intesa con la Commissione europea. Il successivo Piano di azione nazionale per il Sistema
integrato di educazione e istruzione da 0 a 6 anni (D. lgs. 65/2017) ha stanziato ulteriori risorse a
sostegno dei servizi per la prima infanzia, destinate soprattutto alle regioni del Mezzogiorno (a
eccezione della Sardegna)-
Quanto si spende per i servizi educativi?
La spesa impegnata per i servizi educativi nel 2019 è pari a un miliardo e 496 milioni di euro, di cui il
18,7% è la quota rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie. La quota a carico dei comuni, pari a 1,2
miliardi di euro, sostanzialmente stabile nel 2019 a livello nazionale (+0,6%), è sostenuta soprattutto
dall’andamento positivo del Sud Italia (+7,1%).
Sono circa 197.500 i bambini sotto i 3 anni iscritti nei servizi educativi comunali o convenzionati con i comuni nell’anno educativo 2019/2020 (il 14,7% del totale dei loro coetanei).
Il 93,3% degli iscritti frequenta nidi e sezioni primavera, su cui confluisce il 96,7% della spesa dei
comuni per i servizi educativi; il rimanente 6,7% degli iscritti frequenta i servizi integrativi per la prima
infanzia, cui è destinato il 3,3% della spesa.
Asili nido
I nidi comunali sono in parte gestiti direttamente, con personale assunto dai comuni, in parte affidati a
soggetti terzi. Nel tempo si riduce il peso dei nidi a gestione diretta, dove i bambini iscritti diminuiscono
(-4,1% nell’ultimo anno) mentre aumenta quello dei servizi affidati a terzi (+6,4%). Sono stabili gli utenti
dei nidi privati in convenzione con i comuni e crescono i contributi erogati direttamente alle famiglie per
la frequenza del nido (+12,7%). L’offerta tende dunque a orientarsi verso forme gestionali meno
onerose per i comuni: in media, per un bambino iscritto, la spesa a carico passa da 8.645 euro nei nidi
comunali a 1.813 euro nel caso di contributi pagati alle famiglie.
Il Sud migliora ma si conferma il divario territoriale: la spesa pro-capite per bambino residente va da
149 euro l’anno in Calabria (il 3,1% dei bambini fruisce dell’offerta comunale), a 2.481 euro nella
Provincia autonoma di Trento (i servizi comunali accolgono il 30,4% dei bambini sotto i 3 anni).
Sotto la media europea la frequenza del nido
Sulla base dell’indagine campionaria europea sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie, in Italia i
bambini sotto i 3 anni che frequentano una qualsiasi struttura educativa sono il 26,3% nel 2019, valore
inferiore alla media europea (35,3%). In altri paesi del Mediterraneo si registrano nello stesso anno
tassi di frequenza ben superiori (Spagna 57,4%, Francia 50,8%).
Il dato si riferisce alla frequenza di qualsiasi servizio educativo, inclusi gli “anticipatari” alla scuola
d’infanzia, che in Italia rappresentano il 5,1% dei bambini sotto i 3 anni.
Quali fattori influiscono sulle scelte delle famiglie?
In primis ci sono i costi del servizio, soprattutto per l’accesso ai nidi privati, e la scarsa diffusione dei servizi, che penalizza soprattutto i residenti in alcune aree del Paese. I criteri di selezione delle domande da parte dei comuni per l’accesso ai nidi pubblici tendono inoltre a favorire le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, per sostenere la conciliazione degli impegni lavorativi e di cura.
La condizione lavorativa della madre ha un peso determinante per l’accesso ai nidi: le famiglie in cui la
madre lavora usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% delle famiglie in cui solo il padre lavora;
tale differenza non si riscontra se si considera la condizione lavorativa del padre. Le famiglie in cui
lavora un solo genitore possono avere difficoltà ad accedere ai nidi privati, per l’onerosità delle rette, e
ai nidi pubblici per i criteri di accesso applicati dai comuni.
Le famiglie con due redditi, invece, hanno maggiore probabilità di iscrivere i bambini al nido. Infatti, il
reddito netto annuo equivalente delle famiglie con bambini che usufruiscono del nido è mediamente
più alto (24.213 euro) di quello delle famiglie che non ne usufruiscono (17.706 euro) e i tassi di
frequenza aumentano all’aumentare della fascia di reddito delle famiglie.
Il titolo di studio dei genitori si conferma una discriminante della scelta del nido. Prendendo in
considerazione il titolo di studio più alto in famiglia, il possesso di laurea o titolo più alto è associato al
33,4% di frequenza del nido, che scende al 18,9% per i genitori con al massimo il diploma superiore.
Scopri di più da WHAT U
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.