Stop al gender pay gap ossia alla differenza percentuale tra la retribuzione oraria media di uomini e donne rapportata a quella maschile. Lo scorso 26 ottobre scorso il Senato ha approvato all’unanimità sia alla Camera sia al Senato quindi in via definitiva la proposta di legge recante Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo.
La riforma prevede novità importanti sul piano dell’ampliamento delle ipotesi di discriminazione di genere, maggiore trasparenza per le imprese tenute ad adottare il rapporto sulle retribuzioni del personale, nonché l’introduzione di un sistema premiale che incentiva i datori di lavoro a prevenire i potenziali divari retributivi e a promuovere la cultura delle pari opportunità. A smuovere le acque ci aveva pensato la deputata Tiziana Ciprini con numerose iniziative che ora si sono concretizzate con un intervento normativo.
Lo scorso giugno Linda Laura Sabbadini, Direttore della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche di ISTAT, ha partecipato alla XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati affrontando la problematica della differenza salariale fra uomini e donne. “La partecipazione femminile al mercato del lavoro e un trattamento salariale uguale a quello degli uomini”, aveva detto Sabbadini, “contribuisce in misura determinante all’empowerment delle donne nel contesto economico, sociale e politico. Analizzare le dimensioni che contribuiscono a determinare i differenziali salariali di genere è importante per comprendere in che misura agiscano fattori di discriminazione e per individuare i driver che possano favorire la riduzione di tali divari”.
E a difendere le donne in barba a quanto è avvenuto finora ci ha pensato anche la nostra Costituzione che bandisce ogni tipo di discriminazione nei confronti delle donne: Recita l’articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Da tenere presente è che gli ostacoli non sono solo legati al denaro ma anche alla mancanza di servizi come quelli per la custodia di bambini a prezzi abbordabili, assistenza per le persone anziane con costi a portata di tasca per tutti, questo per chi per esempio oltre ad avere bambini piccoli o comunque minori da accudire ha anche genitori anziani e malati da assistere). Tutti fattori che di fatto limitano l’effettiva partecipazione della donna al mercato del lavoro.
Ma non esiste solo la discriminazione diretta ma anche quella indiretta perché per esempio “un’organizzazione oraria del lavoro, che chieda di essere inderogabilmente sul posto di lavoro prima dell’orario di apertura del nido o della scuola, può sembrare neutrale ma non lo è per chi ha figli piccoli, così come lo spostamento in sedi lontane”.
Il ddl sulla parità salariale tra uomo e donna è legge. Ogni azienda oltre 50 dipendenti dovrà pubblicare un rapporto biennale
Di particolare impatto è l’estensione dell’obbligo in capo aziende pubbliche e private che occupano oltre 50 dipendenti (prima la soglia era cento) di redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile: il ministero del Lavoro pubblicherà nel proprio sito internet istituzionale l’elenco delle aziende che hanno tramesso il rapporto e di quelle che non l’hanno fatto.
Il decreto ministeriale di attuazione disciplinerà anche le modalità di accesso al rapporto da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali dell’azienda interessata, nel rispetto della tutela dei dati personali, al fine di usufruire della tutela giudiziaria. La possibilità da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali di accedere ai dati del rapporto sulla situazione del personale consente di rafforzare la tutela contro le discriminazioni ai fini della cosiddetta prova statistica diretta all’accertamento giudiziale della discriminazione e dell’attenuazione dell’onere probatorio che incombe sulla lavoratrice che assume di aver subito una discriminazione ai sensi dell’articolo 40 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
Le aziende pubbliche e private che occupano fino a 50 dipendenti potranno invece, su base volontaria, redigere il rapporto sulla situazione del personale e beneficiare anch’esse della cosiddetta certificazione della parità di genere con i conseguenti benefici contributivi.
A chi viola l’obbligo vengono sospesi per un anno i benefici contributivi eventualmente goduti se l’inerzia si protrae per oltre un anno dall’invito dell’Ispettorato del lavoro a adempiere.
“L’obbligo del rapporto è legato a una novità interessante: l’istituzione dal 1° gennaio 2022 della “certificazione della parità di genere”, ovviamente riservata alle aziende sopra i 50 dipendenti, quelle che hanno l’obbligo di presentare il rapporto e delle quali si può dunque misurare i risultati. Il suo conseguimento da parte delle aziende private darà diritto a un esonero, nel limite di 50 milioni di euro, dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, determinato in misura non superiore all’uno per cento e nel limite massimo di 50mila euro annui per ciascuna azienda. La nuova certificazione necessiterà per la sua concreta applicazione di un decreto attutivo. Inoltre la certificazione di parità garantirà un punteggio premiale nell’assegnazione di fondi e nella partecipazione di gare e avvisi banditi dalle amministrazioni che saranno tenute ad indicare nei rispettivi bandi i criteri premiali. La legge infine estende alle società controllate da pubbliche amministrazioni, e non quotate, la regola dei due quinti di presenze femminili nei consigli di amministrazione per i primi sei mandati successivi all’applicazione della norma”, spiega su Il Fatto, Giuseppe Pennino, Avvocato e docente in Scienze giuridico – economiche, nel 2019 “Esperto giuridico” presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Nel Regno Unito
In tutto il Regno Unito, la forza lavoro femminile è pagata con una tariffa oraria media di 12,92 sterline, il 15% in meno rispetto alla paga oraria di 15,27 sterline guadagnata dagli uomini. Per i lavoratori a tempo pieno, il divario è quasi dell’8 per cento. Le cifre orarie vengono utilizzate per rimuovere l’effetto degli straordinari, mentre la mediana viene utilizzata per impedire che vengano distorti da salari particolarmente piccoli o grandi.
L’ONS (Office for National Statistics) ha affermato che le stime per quest’anno sono soggette a una certa incertezza a causa delle sfide affrontate nella raccolta dei dati durante la pandemia di coronavirus, ma le cifre suggeriscono che il divario per i lavoratori a tempo pieno si è leggermente ampliato a livello nazionale dall’aprile 2020.
Sophi Berridge, di The Equality Trust, che si batte per ridurre la disuguaglianza di reddito, ha dichiarato: “Durante la pandemia, le donne avevano maggiori probabilità di essere licenziate o licenziate, soffrivano della mancanza di assistenza all’infanzia e si assumevano maggiori responsabilità nell’istruzione e nell’assistenza domiciliare”.
Cosa si potrebbe fare? I datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione l’introduzione di servizi di assistenza all’infanzia sovvenzionati, l’accesso a permessi retribuiti per entrambi i genitori e una solida formazione e sostegno per le donne. Un portavoce dell’Equality Hub del governo britannico ha affermato che la pandemia ha avuto un grave impatto sul posto di lavoro e sull’economia in generale. Aggiungendo: “Il governo continuerà a lavorare per rendere il Regno Unito un posto più equo in cui vivere. Ci impegniamo a rendere i luoghi di lavoro più uguali per consentire a tutti di raggiungere il proprio potenziale”.
Felicia Willow, CEO ad interim dell’ente benefico per l’uguaglianza di genere The Fawcett Society, ha chiesto “un’azione coraggiosa” da parte del governo, aggiungendo: “Sebbene la segnalazione del divario retributivo di genere sia stata efficace nel convincere i grandi datori di lavoro ad agire, deve andare molto oltre – vogliamo che il governo chieda piani d’azione obbligatori da parte dei datori di lavoro per affrontare il divario retributivo di genere nella forza lavoro, oltre a condividere i dati”. Secondo i dati dell’ONS il divario retributivo di genere nel Regno Unito ha continuato la sua tendenza al ribasso, ma la penalità retributiva subita dalle donne con più di 40 anni persevera.
Secondo i dati di ONS tra tutti i dipendenti, il divario retributivo di genere è aumentato al 15,4%, dal 14,9% nel 2020. Per le over 40, il divario retributivo di genere a tempo pieno è compreso tra l’11,9% e il 12,3%, mentre per le under 40 è compreso tra lo 0,9% e il 3,0%.
Sarah Jackson, visiting professor presso la Cranfield University School of Management, ha dichiarato: “La maternità ha chiaramente ancora un enorme impatto sull’upgrade di carriera delle donne e le donne che hanno più di 40 anni o che ricoprono ruoli da senior sono le più colpite dal divario retributivo di genere”. L’ONS ha anche scoperto che il divario retributivo di genere è più elevato in ogni regione dell’Inghilterra rispetto a Galles, Scozia e Irlanda del Nord. “Dobbiamo sfidare lo status quo”, ha detto la Jackson.
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