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MILANO, NUOVO ACCORDO TRA QUESTURA E UNIVERSITÀ DEGLI STUDI PER IL RECUPERO DEI “PARTNER ABUSANTI”


ph. BREMBATI/NEWPRESS x neri grassi bandera abate

 di Patrizia Vassallo

Tra l’1 gennaio e il 7 novembre di quest’anno in Italia sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne (una ogni tre giorni), di cui 87 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Questi sono alcuni dei dati contenuti nell’ultimo report sugli “Omicidi volontari” curato dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della polizia criminale. Rispetto allo stesso periodo del 2020, si nota un lieve decremento (-2%) nell’andamento generale degli eventi (da 251 a 247), con le vittime di genere femminile che aumentano invece da 97 a 103 (+6%). Anche i delitti commessi in ambito familiare/affettivo mostrano una leggera  crescita (+2%), passando da 124 a 127; le vittime di genere femminile, da 83 nel periodo 1 gennaio-7 novembre 2020, arrivano a 87 nell’analogo periodo dell’anno in corso (+5%). Stesso incremento (+5%) per le donne vittime di partner o ex che passano da 57 a 60.In termini assoluti, le donne vittime di omicidi sono state 141 nel 2018, 111 nel 2019 e 116 nel 2020 ma la percentuale di vittime donne sul totale degli omicidi volontari è salita dal 35% del 2019 al 40,5% del 2020; quest’anno, fino al 7 novembre, risulta in ulteriore ascesa (41,7%).  La Questura di Milano all’inizio di novembre ha sottoscritto un protocollo con l’Università degli studi di Milano, non solo per avviare una strutturata attività di collaborazione scientifica in materia di analisi dei fenomeni criminali, ma anche per attivare dei percorsi definiti “trattamentali” destinati agli autori di condotte violente in osservanza al disposto del decreto legge 93/2013 che di fatto consente al Questore di informare l’autore di condotte di violenza di genere circa i servizi disponibili sul territorio, per rafforzare la sua consapevolezza nel processo di eliminazione della violenza e nella soluzione dei conflitti nei rapporti interpersonali con lo scopo di favorirne il recupero, limitando così i casi di recidiva.

Il compito redentivo spetterà al S.A.Vi.D. (Stop alla Violenza Domestica), ossia al centro specialistico criminologico-clinico, istituito nel 2010, che si trova presso la Cattedra di Criminologia dell’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni e opera in virtù di una Convenzione fra l’Università degli Studi di Milano e l’U.I.E.P.E. (Ufficio Interdistrettuale per l’Esecuzione Penale Esterna) e fa parte della rete Anti-violenza del Comune di Milano e del Coordinamento Nazionale dei Centri per il trattamento degli uomini violenti. Alla sua guida, nelle vesti di responsabile, Isabella Merzagora, Professore Ordinario di Criminologia dell’Università degli Studi di Milano, ex Presidente della Società Italiana di Criminologia, con un know how quarantennale nello studio e nella prevenzione e repressione dei fenomeni criminali.   

Professoressa Merzagora può spiegare più nel dettaglio questa iniziativa?

Dal 2011 sono responsabile quindi a capo di S.A.Vi.D. che opera in virtù di una Convenzione fra l’Università degli Studi di Milano e l’U.I.E.P.E. (Ufficio Interdistrettuale per l’Esecuzione Penale Esterna) e fa parte della rete Anti-violenza del Comune di Milano e del Coordinamento Nazionale dei Centri per il trattamento degli uomini violenti, per  prevenire il fenomeno della violenza contro donne, rafforzando la consapevolezza degli uomini nel processo di eliminazione della violenza contro le donne e nella soluzione dei conflitti nei rapporti interpersonali. L’obiettivo del centro, il primo ad essere aperto in Italia, è quello di fornire un servizio di “trattamento di recupero dei partner abusanti”. Grazie al mio lavoro di criminologa mi ero accorta che nel nostro Paese c’erano strutture dedicate alle donne maltrattate, vittime di violenza, viceversa, contrariamente a quanto già avveniva in altri paesi, non c’erano strutture per il recupero di partner abusanti. Quindi ho pensato alla necessità di creare un servizio che potesse aiutare queste persone ad avere una nuova chance nella società.  E noi abbiamo iniziato con i soggetti già condannati, che scontavano la misura alternativa alla detenzione facendo fare loro un percorso di recupero richiesto dal Tribunale della Sorveglianza.

Un vero e proprio percorso terapeutico…

Di fatto sì per aiutarli a comprendere che avrebbero potuto fare altre scelte, facendo capire loro le ragioni per le quali erano stati condannati, perché avevano commesso un reato. E tuttora li facciamo parlare del loro passato, delle famiglie in cui sono cresciuti per sapere come sono stati abituati a risolvere i conflitti in famiglia e come li hanno vissuti da spettatori da bambini.  Perché c’è anche la “violenza sentita” ossia che fa ripetere quello che si è visto e sentito…

Perché in carcere non c’è la possibilità di comprendere gli errori fatti?

Perché nella maggior parte dei casi non si ha la possibilità di essere seguiti in un determinato modo, ossia facendo un vero e proprio percorso terapeutico ad hoc. Questi soggetti nella maggior parte dei casi escono dalla prigione ancora più incattiviti con la convinzione di avere subito un’ingiustizia. Quindi il trattamento serve a fare comprendere loro che l’atteggiamento e il comportamento adottato prima di finire in carcere era davvero sbagliato. Bisogna dare alternative, alternative culturali e comportamentali preferibilmente in un’ottica preventiva.

Come si fa a prevenire questi fenomeni?

La Questura ci ha chiesto di occuparci anche degli ammoniti ossia di quei soggetti che sono stati segnalati con un provvedimento amministrativo e sui quali è possibile attivarsi in tal senso. Perché spesso è un luogo comune pensare che queste persone siano malate. Forse alcune persone lo sono per davvero e hanno necessità di essere seguite da uno psichiatra, ma sono poche. Nella maggior parte dei casi serve solo una rieducazione comportamentale della persona. La gelosia morbosa, tanto per fare un esempio, non è una patologia psichiatrica, ma una patologia culturale. Le mie due parole d’ordine? “Responsabilizzazione” e “prevenzione”.

Quali le convinzioni reiterate in alcuni soggetti?

Quelle di dovere “disciplinare le mogli, le compagne” e “fare un po’ di ordine in casa”.

Lei nel 2009 ha scritto un libro “Uomini violenti”. Secondo lei questi atteggiamenti non dipendono anche dalla cultura della persona, da usi costumi e tradizioni, in alcuni casi?

L’ingresso nel nostro paese di soggetti appartenenti a culture in cui il giudizio, la sperequazióne di genere se possibile è più forte che da noi, è diventato un problema non da poco in questi ultimi anni. C’è chi giustifica certi comportamenti con motivazioni religiose infondate, che noi criminologi definiamo “tecniche di neutralizzazione”.

Un uomo violento si riconosce già all’inizio di una relazione. Quali sono i primi campanelli di allarme?

Di prassi certi comportamenti si apprendono dalla famiglia di origine o dai propri pari. Poi ci sono accadimenti nel corso della vita che possono sviluppare una dipendenza affettiva morbosa che diventa paura di perdere il partner, che può generare violenza. Perché ci sono soggetti che hanno un’enorme paura di restare da soli. Lo scopo del nostro progetto di risocializzazione è quello di indagare il contagio in famiglia o quello tra i pari.

A volte si crede che siano donne deboli a instaurare relazioni con questa tipologia di uomini in realtà non è sempre così …

Non è sempre così, ma è pur vero che esistono molte donne affette dalla sindrome della crocerossina e queste donne spesso tendono a scegliere reiteratamente partner difficili, con problemi, poco risolti, eterni Peter Pan, quindi partner immaturi convinte di riuscire a cambiarli, di riuscire a cambiare i loro caratteri. E ciò nella maggior parte dei casi non accade.

Le donne che scelgono partner sofferenti, quindi bisognosi di aiuto, riscatto, miglioramento, quelle che trasmettono al proprio compagno il seguente messaggio: “io sono qui per te e mi occuperò completamente di te”, sono quelle più a rischio?

Sì perché sono quelle donne che hanno un’eccessiva idea salvifica. Ma chi ha insegnato a queste donne a comportarsi in questo modo?  Pensi a quelle che scrivono ai serial killer…  

Mettere il compagno prima di tutto, e soprattutto prima di se stesse, e dei propri bisogni per alcune donne è un comportamento totalmente inconsapevole…Come è una scelta talvolta quella “di non chiedere le referenze” e “di non andare a fondo nel passato dei loro partner”…

Per questo motivo noi spesso chiediamo di parlare con le nuove compagne di questi uomini, anche se sono poche quelle che accettano un incontro.

Come riconoscere la violenza?

L’amore deve essere fonte di benessere deve basarsi sulla cooperazione e reciprocità tra due persone in grado di mantenere la loro autonomia nonostante la necessità di volere stare vicini o assieme. Quando ci troviamo di fronte a relazioni in cui il partner è vissuto come un sostegno di un’autostima vacillante, non si può parlare di amore, ma di forme malsane di amore in cui si annida il seme della dipendenza affettiva. Situazioni che spesso fanno scaturire la violenza. Chi soffre di dipendenza affettiva corre il rischio di instaurare un rapporto non paritario con l’altro cercando di trovare nella relazione una conferma del proprio valore. Che in questi casi non viene mai riconosciuto.

Quali gli errori da non fare?

Quello di esasperare certe situazioni. Bisogna trovare il coraggio di dire basta. Di separarsi. In prigione spesso finiscono quelle persone che non hanno avuto alternative. Le prigioni spesso diventano delle discariche sociali.

Esistono anche uomini maltrattati…

Certo, io non ho mai fatto una distinzione fra uomini e donne maltrattati, ma fra vittime e carnefici. Per questo motivo anche agli uomini maltrattati ho provato a dare una chance, ma quelli che sono venuti nel nostro centro hanno avuto difficoltà e hanno provato vergogna a parlarne.

Secondo recenti dati i violenti hanno un rischio di recidiva di circa il 20%. Quindi tendono a ripetere il reato. Quale il suo parere sulla questione?

Sulla recidiva non ho dati, ma posso dirle che abbiamo avuto una percentuale alta di persone che hanno proseguito il nostro percorso di recupero con una percentuale di abbandono minima circa del 10%. Per noi quindi un grande successo.  

Chi ha abbandonato perché lo ha fatto?

Perché non erano motivati e se ne sono andati. Non si può pensare di risolvere tutto.



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