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ISTAT, NEL 2021 SONO STATI 59MILA I DECESSI PER COVID. QUADRUPLICATI IN 20 ANNI IL NUMERO DEGLI ULTRACENTENARI


Lo studio appena pubblicato da ISTAT restituisce un quadro demografico complessivo della popolazione italiana nell’anno 2021, Partendo dai decessi che hanno toccato quota 709 mila in totale, il 4,2% in meno rispetto al 2020 con un tasso per abitante pari al 12 per mille. Le morti causate da Covid-19, come accertato dal Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), sono state circa 59mila. Tra le note positive c’è il fatto che superato il blocco pandemico del 2020, nel 2021 il desiderio di formare famiglia attraverso l’unione coniugale ha registrato una crescita dell’85% sull’anno precedente (179 mila matrimoni), che non ha tuttavia riportato la frequenza annua al livello del 2019.

Un ambito che segna più marcatamente la prosecuzione delle tendenze regressive in corso è quello della natalità. Con 399 mila neonati, l’anno 2021 certifica l’ennesimo traguardo storico del record di minore natalità mai registrato nella Storia d’Italia. D’altra parte, poiché le intenzioni riproduttive delle coppie manifestatesi nel 2021 hanno per lo più avuto corso nel 2020, alla più che consolidata questione nazionale della bassa fecondità si sono associati gli effetti del lockdown, generando ancora più incertezza nelle scelte di pianificazione familiare. I fattori pandemici combinati alle questioni demografiche nazionali di lungo corso, tra le quali soprattutto quella del perdurante mantenimento della fecondità su valori minimi, hanno così determinato anche nel 2021 un livello molto negativo del saldo naturale. Dopo la cifra record di -335 mila unità del 2020, nel 2021 si è passati a -309 mila facendo così apparire un flebile ricordo, era il 2006, l’ultima volta in cui nascite e decessi erano in sostanziale equilibrio. In tale contesto, i flussi migratori netti con l’estero, pur tornati ampiamente positivi nel 2021, sono ancora lontani dal poter controbilanciare la perdita di popolazione dovuta a cause naturali, così come avveniva nel primo decennio degli anni 2000 e nella prima parte del secondo fino a tutto il 2013 incluso. In pratica il comportamento demografico emerso nel 2021 comporta, sotto diversi profili, anche una crescita delle diseguaglianze territoriali. Ma vediamo nel dettaglio le parti peculiari dell’analisi di ISTAT.

Persi in un anno oltre 250 mila residenti

La popolazione residente è in riduzione costante dal 2014 quando risultava pari a 60,3 milioni. Al 1° gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, la popolazione scende a 58 milioni 983 mila unità cosicché nell’arco di 8 anni la perdita cumulata è pari a 1 milione 363 mila. Di tale ammontare complessivo i comportamenti demografici emersi nel corso del solo 2021 sono responsabili per un calo di 253 mila unità. In un quadro tendenziale dove le diseguaglianze territoriali tornano a essere evidenti, la crisi demografica colpisce maggiormente il Mezzogiorno (-6,5 per mille) e, in particolar modo, regioni come Molise (-12 per mille), Basilicata (-9,5) e Calabria (-8,6), sempre più sul procinto di essere coinvolte in una situazione da cui appare difficile poter uscire.

Ben 34 delle complessive 38 Province del Mezzogiorno presentano un tasso di variazione annuale della popolazione peggiore di quello nazionale (-4,3 per mille) e in 9 di queste la riduzione relativa è a doppia cifra: si va dal -10,6 per mille riscontrato nella Provincia di Oristano al -15,4 per mille in quella di Isernia, con in mezzo circoscrizioni importanti come Nuoro, Campobasso, Enna, Potenza, Benevento, Caltanissetta e Crotone.

Speranza di vita in parziale recupero ma ampia disomogeneità sul territorio

Nel 2021 la speranza di vita alla nascita è stimata in 80,1 anni per gli uomini e in 84,7 anni per le donne. Senza distinzione di genere risulta pari a 82,4 anni. Le stime, pertanto, mostrano un recupero rispetto al 2020, quantificabile in 4 mesi di vita in più per gli uomini e in circa 3 per le donne. Rispetto al periodo pre-pandemico, tuttavia, il gap rimane sostanziale. Nel confronto con il dato del 2019, per esempio, gli uomini subiscono una perdita in termini di speranza di vita alla nascita di 11 mesi, le donne di 7. Nel Nord la speranza di vita alla nascita, senza distinzione di genere, risulta pari a 82,9 anni, recuperando quindi 11 mesi di sopravvivenza sul 2020. Ne resterebbero da recuperare 7 per assorbire il divario anche sul 2019. Peraltro, in alcune regioni settentrionali il recupero raggiunto in un solo anno è notevole; ad esempio in Lombardia dove, grazie a una speranza di vita alla nascita totale di 83,1 anni, si recuperano ben 20 dei 27 mesi perduti. Fa eccezione il Friuli-Venezia Giulia con una speranza di vita alla nascita totale che scende di ulteriori 6 mesi in aggiunta ai 10 già persi nel 2020.

ECCESSO DI MORTALITA’ PER SESSO E CLASSI QUINQUENNALI DI ETA’

L’eccesso di mortalità si trasferisce nel Mezzogiorno

Nel 2021 si riscontra un aumento dell’eterogeneità territoriale, sotto forma di crescita delle distanze di sopravvivenza tra Nord e Mezzogiorno. In quest’ultima ripartizione, infatti, la speranza di vita alla nascita totale scende a 81,3 anni, evidenziando una perdita di 6 mesi che vanno a cumularsi ai 7 mesi ceduti nel 2020. Una spiegazione possibile del fenomeno riguarda i tempi di propagazione della pandemia. La prima ondata del 2020 ha colpito soprattutto il Nord mentre il Mezzogiorno è stato maggiormente coinvolto solo a partire dalla seconda, ossia nell’ultima parte dell’anno. Cosicché è verosimile che le persone più fragili residenti al Nord abbiano pagato il prezzo della vita prevalentemente nel 2020, quelle del Mezzogiorno nel 2021, con la terza e quarta ondata.

Sotto tale punto di vista è esemplare il caso di molte province del Nord-ovest, le più colpite dalla prima ondata pandemica, che nel 2021 conseguono straordinari recuperi di sopravvivenza. La provincia di Bergamo, ad esempio, recupera nel 2021 ben 43 dei 44 mesi di speranza di vita ceduti nel 2020, così come Cremona (37 su 44), Piacenza (31 su 39) e Lodi (31 su 44). Al contrario, molte realtà del Mezzogiorno che nel 2020 sono state minimamente o affatto toccate dalla pandemia, nel 2021 arretrano di molte posizioni. Illuminante è il caso della provincia di Agrigento, che al mese di vita guadagnato nel 2020 se ne vede sottrarre 19 nel 2021, al pari di quella di Caltanissetta che a un risultato positivo di 2 mesi in più contrappone una perdita di 14 mesi l’anno successivo. Non mancano nemmeno situazioni nelle quali a un quadro critico già emerso nel 2020 si assiste a un peggioramento l’anno dopo. Ad esempio, la provincia di Campobasso, con 15 mesi persi nel 2021 in aggiunta agli 11 già ceduti l’anno prima, e la provincia di Enna con 13 mesi di perdita in aggiunta agli 11 lasciati nel 2020.

Un’ulteriore chiave di lettura di questi andamenti è connessa al tasso di vaccinazione. Secondo i dati messi a disposizione dal Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 sulla somministrazione dei vaccini, risulta che al 31 dicembre 2021 l’86,7% della popolazione vaccinabile avrebbe ricevuto almeno una dose, l’83,3% anche una seconda (o un richiamo dopo la prima infezione) e, infine, il 36,2% la dose addizionale booster . Il tasso di vaccinazione sul territorio, tuttavia, risulta diversificato soprattutto con riferimento alle seconde e terze dosi. Nel Nord il tasso di vaccinazione per seconde dosi è dell’84,2% a fronte dell’81,6% nel Mezzogiorno. Per la dose booster il Mezzogiorno si ferma al 33% mentre il Nord è al 37,9%. Su base regionale quest’ultimo indicatore presenta valori relativamente più bassi in Sicilia (25,9%) e Calabria (30%). Tra le regioni del Nord, il fatto che nel Friuli-Venezia Giulia la speranza di vita si sia ulteriormente ridotta nel corso del 2021 può essere posto in relazione al fatto che in tale regione si riscontri un tasso di vaccinazione più contenuto con riferimento alla terza dose (33%).

L’eccesso di mortalità interessa più gli uomini e gli anziani

Secondo il Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata dell’ISS, nel corso del 2021 sono stati registrati 58.705 decessi attribuibili a Covid-19, in calo rispetto ai 77.165 del 2020 3. Tuttavia, nel 2020 una quota addizionale minima di decessi (16 mila) può essere attribuita ad altre patologie concorrenti o a una parziale sottocopertura di casi Covid-19 letali. Tale conteggio, che complessivamente dà luogo a un eccesso di mortalità pari a 93 mila unità nel corso del 2020, lo si evince ipotizzando rischi di morte costanti pari a quelli osservati nel 2019 (647 mila decessi attesi rispetto a 740 mila rilevati) 4.

Applicando il medesimo metodo di calcolo ai dati 2021 emerge con maggior chiarezza un quadro generale di miglioramento della sopravvivenza, già documentato attraverso le precedenti analisi della mortalità assoluta e della speranza di vita. Infatti, con rischi di morte pari a quelli del 2019, nel 2021 i morti sarebbero stati 651 mila. Il surplus accertabile, rispetto ai 709 mila decessi totali, è dunque pari a circa 58 mila casi, pressappoco la stessa quantità di eventi di decesso attribuiti a Covid-19, senza ulteriore surplus come avvenuto nel 2020. Delle 58 mila unità stimate come eccesso di mortalità, circa 32 mila sono uomini e 26 mila donne, confermando che la pandemia colpisca letalmente soprattutto il genere maschile. In base all’età le perdite umane in eccesso si concentrano tutte dopo i 50 anni e risultano maggiori all’avanzare dell’età. Si registra un eccesso di mortalità nelle età più fragili, che per gli uomini interessa soprattutto le classi 80-94 anni (oltre 16 mila decessi in più), mentre per le donne prevale nella classe 85-99 anni (circa 18 mila). A livello nazionale l’eccesso di mortalità rappresenta l’8% della mortalità riscontrata nell’anno (13% nel 2020), ma la situazione è molto varia sul piano territoriale. Nel Nord rappresenta il 7%, nel Centro l’8% e nel Mezzogiorno il 10% del totale. A livello regionale i valori variano dal 5% della Liguria al 17% del Molise, confermando un’immagine letteralmente capovolta rispetto al 2020.

INDICATORI FECONDITA’

NASCITE PER MESE

Aumento dell’incertezza e fattori strutturali condizionano le nascite

Il Covid-19, unitamente alle restrizioni forzate sul piano della mobilità residenziale e delle celebrazioni nuziali ha prodotto un impatto psicologico specifico nel 2020 (perlomeno a partire dal mese di marzo) che ha avuto conseguenti effetti sulle scelte riproduttive portate a termine nel 2021. In aggiunta a tale fattore, se si fosse procreato con la stessa intensità e col medesimo calendario di fecondità del 2019, quando si registrarono 420 mila nascite, nel 2021 se ne sarebbero osservate circa 405 mila, anziché 399 mila5. Dunque, il solo effetto strutturale legato al processo di invecchiamento e riduzione della popolazione femminile in età feconda comporta un calo, a parità di calendario riproduttivo, di almeno 15 mila nascite. L’ulteriore calo di 6 mila nascite sul 2020 è frutto della reale contrazione dei livelli riproduttivi espressi, sui quali gli effetti pandemici hanno inevitabilmente esercitato una funzione.

Segnali di ripresa della natalità sul finire dell’anno

Il numero medio di figli per donna si attesta nel 2021 a 1,25 figli per donna, dunque in lieve rialzo rispetto all’1,24 del 2020, nonostante l’ulteriore declino delle nascite. Ciò si deve, come detto, al deficit dimensionale e strutturale della popolazione femminile in età feconda, che si riduce nel tempo e ha un’età media in aumento.

In prospettiva, al fine di contrastare la perdurante bassa natalità il Paese avrebbe bisogno non solo di fare molti più figli di quanti se ne facciano normalmente, ma anche di incrementare la base potenziale di chi potrebbe farli. Anche perché avere figli è sempre più una scelta rinviata nel tempo e, in quanto tale, ridotta rispetto a quanti idealmente se ne desiderano. L’età media al parto ha raggiunto i 32,4 anni (+0,2 sul 2020), un parametro che segna regolari incrementi da molto tempo (30,5 nel 2002). Anche sul piano territoriale le variazioni su base annuale della fecondità sono di modesta entità, per quanto nel Nord e nel Centro il numero medio di figli per donna cresca, rispettivamente, da 1,27 a 1,28 e da 1,17 a 1,18. Stabile è invece il Mezzogiorno, fermo a 1,24 figli per donna come nel 2020. Troppo presto e troppo poco per poter valutare, come nel caso della mortalità, la presenza di un’accentuazione delle differenze territoriali di fecondità. Permane comunque solida la circostanza di molte regioni del Mezzogiorno (salvo Campania e Sicilia) ben al di sotto della fecondità espressa a livello nazionale. In particolare, Basilicata (1,10 figli per donna), Molise (1,08) e Sardegna (0,99) rimangono saldamente ancorate sul valore di rimpiazzo della sola madre (cioè a un figlio per donna) che non, idealmente, a quello della coppia di genitori. La scelta di rinviare sempre più in avanti la decisione di avere figli accomuna tutte le realtà del territorio. Le neo-madri del Nord e del Centro, rispettivamente con età medie al parto di 32,5 e 32,8 anni, continuano a presentare un profilo medio per età più anziano rispetto a quelle del Mezzogiorno (32 anni). Ciononostante proprio in quest’ultima ripartizione si trovano le neo-madri mediamente più anziane del Paese, quelle sarde (33 anni) e lucane (33,1).

Segnali di ripresa provengono dalla nuzialità. Nel 2021 si è quasi tornati alla normalità grazie a 179 mila celebrazioni (3 per mille abitanti), quando nel 2020 se ne riscontrarono appena 97 mila (1,6 per mille). Non si tratta di un livello, quello espresso nel 2021, precisamente analogo a quello del 2019 (184 mila matrimoni) ma senz’altro in linea col trend discendente degli anni antecedenti la pandemia (270 mila matrimoni nel 2002). Stante il positivo legame tra nuzialità e intenzioni riproduttive, considerato che tutt’oggi nel Paese almeno i due terzi delle nascite hanno origine all’interno del nucleo coniugale, la ripresa della nuzialità del 2021 potrebbe sottintendere un parziale recupero di nascite nel corso del 2022. In realtà, primi segnali per quanto timidi di ripresa si ravvisano già nell’ultima parte del 2021. A novembre e dicembre si sono registrate circa 69 mila nascite, il 10% in più di quanto rilevato nel medesimo periodo del 2020, ma sostanzialmente lo stesso valore osservato nel 2019.

Ripartono le migrazioni

Nel 2021 le migrazioni, sia interne sia con l’estero, risultano in rialzo dopo che nel 2020, a causa della pandemia, erano state frenate dalla prescrizione di barriere all’ingresso dei confini nazionali e dalle limitazioni imposte al movimento interno. Le iscrizioni dall’estero per trasferimento di residenza sono cresciute del 15,7% sul 2020 (da 248 mila a 286 mila), ma risultano inferiori del 14% rispetto a quelle del 2019 (333 mila). Le cancellazioni per l’estero scendono del 19% sul 2020 (da 160 mila a 129 mila) e del 27,9% sul 2019 (180 mila). In attesa di analisi più approfondite, tre sono per il momento le possibili chiavi di lettura alla base della recente congiuntura delle migrazioni internazionali con l’Italia. La prima, più scontata e valida anche per il rilancio delle migrazioni interne, prende in considerazione la ripresa economica e la crescita dell’occupazione. La seconda, l’alto livello di welfare del Paese sul versante sanitario rispetto al quadro di incertezza internazionale nel contrasto alla pandemia. Entrambi elementi che possono aver indotto le persone a considerare l’Italia un Paese rifugio, da non abbandonare per chi vi è già residente o da considerare quale possibile meta di destinazione per un potenziale migrante. Una terza chiave di lettura riguarda l’emanazione di politiche assai restrittive da parte del Governo britannico nel rilascio dei visti di ingresso nel Regno Unito, a conclusione del processo di transizione che ha condotto alla Brexit. Elemento questo che potrebbe da un lato aver frenato l’emigrazione dall’Italia per quel Paese (soprattutto di cittadini italiani), dall’altro aver fatto salire l’Italia nella classifica delle mete di destinazione favorite da parte dei migranti.

Il saldo migratorio netto con l’estero sale a 2,7 per mille abitanti, da 1,5 per mille nel 2020, risultando così superiore anche a quello riscontrato nel 2019 (2,6 per mille). Il rialzo dei flussi migratori netti sul 2020 interessa tutte le aree del Paese, tanto il Nord (da 1,7 a 2,9 per mille) quanto il Centro (da 2,3 a 3,3 per mille) e il Mezzogiorno (da 0,7 a 1,9 per mille). Le regioni con la dinamica più vivace per migrazioni internazionali sono la Liguria (4,1 per mille) e il Friuli-Venezia Giulia (3,9 per mille) ma quella che presenta una maggior risalita del tasso migratorio estero sul 2020 è il Molise (da 0,7 a 2,6 per mille). Tra le regioni che, pur presentando un saldo migratorio netto positivo nel 2021, non riescono ancora a riassorbire del tutto la differenza rispetto al periodo pre-pandemico figurano solo regioni del Centro-nord (Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Lazio). Tutte le altre, tra cui Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Marche per il Centro-nord e tutte le regioni del Mezzogiorno presentano livelli migratori netti superiori persino a quelli del 2019.

Dinamica migratoria stabile tra Nord e Mezzogiorno

Tra i vari segnali di ritorno alla normalità degli anni precedenti la pandemia vi è quello della ripresa della mobilità residenziale interna al Paese. Dopo il forte arretramento emerso nel 2020, quando si registrarono 1 milione 334 mila trasferimenti, il 10% in meno rispetto al 2019, nel 2021 si ritorna a oltrepassare abbondantemente quota 1 milione 400 mila, ossia un livello ancora non del tutto in linea con quelli pre-pandemici (rispetto ai quali si rileva una differenza del 4,9%) ma nemmeno lontano da questi.

Anche nel 2021 si registrano movimenti migratori interni sfavorevoli al Mezzogiorno. In tale ambito, sono 389 mila gli individui che hanno lasciato nel corso dell’anno un comune meridionale per trasferirsi in un altro comune italiano (eventualmente anche dello stesso Mezzogiorno), mentre sono 339 mila quelli che hanno eletto un comune del Mezzogiorno quale luogo di dimora abituale (eventualmente anche provenienti da altro comune dello stesso Mezzogiorno). Tale dinamica ha generato, per il complesso della ripartizione, un saldo negativo di 49 mila unità (-2,5 per mille abitanti). Tra le regioni del Mezzogiorno la situazione risulta più sfavorevole in Basilicata (-4,8 per mille) e Calabria (-4,4 per mille), seguite da Molise (-3,9 per mille) e Campania (-3,2 per mille). Le regioni del Nord, dove complessivamente si riscontra un tasso del +1,6 per mille, rimangono quelle a maggiore capacità attrattiva, rispetto a quelle del Centro, che nel complesso registra un +0,5 per mille. Le regioni più attrattive risultano essere l’Emilia-Romagna (+2,9 per mille) e il Friuli-Venezia Giulia (+2,5 per mille). Dal confronto con l’anno precedente emergono saldi migratori interregionali non troppo dissimili, nonostante la crescita del volume complessivo di trasferimenti. Il Nord, ad esempio, presentava nel 2020 un tasso uguale a quello del 2021 (+1,6 per mille), il Mezzogiorno ne presentava uno appena migliore (-2,4 per mille) mentre solo per il Centro si può parlare di crescita dei flussi migratori netti (da +0,3 a +0,5 per mille).

Non si smette di invecchiare nonostante la pandemia

L’età media della popolazione transita, tra l’inizio del 2021 e l’inizio del 2022, da 45,9 a 46,2 anni. Pertanto, in relazione al permanente regime di bassa fecondità, nonché al fatto che si vive sempre più a lungo, la struttura della popolazione prosegue il suo progressivo scivolamento verso le età senili, anche in una fase storica come quella corrente, caratterizzata dalla presenza di una pandemia con pesanti ricadute letali per la sopravvivenza della popolazione anziana.

POPOLAZIONE ULTRECENTENARIA IN ITALIA

Oltre 20 mila centenari

La popolazione ultrasessantacinquenne, 14 milioni 46 mila individui a inizio 2022 in base alle stime (+105 mila), costituisce il 23,8% della popolazione totale contro il 23,5% dell’anno precedente. Viceversa, risultano in diminuzione tanto gli individui in età attiva quanto i più giovani: i 15-64enni (-198 mila) scendono dal 63,6% al 63,5% mentre i ragazzi fino a 14 anni (-160 mila) passano dal 12,9% al 12,7% del totale. In nessuna regione, neanche in quelle a maggior impatto pandemico, la super-mortalità del 2021 determina una momentanea riduzione del processo di invecchiamento. Al Nord e al Centro le popolazioni ultrasessantacinquenni, che rispettivamente crescono dal 24,1% al 24,3% e dal 24,2% al 24,5%, registrano una variazione relativa più contenuta di quella del Mezzogiorno, per quanto quest’ultima area del Paese resti mediamente più giovane sotto il profilo dell’età (dal 22,3% al 22,7%).

La pandemia può, dunque, avere al massimo rallentato l’invecchiamento della popolazione, senza la quale certamente oggi saremmo in presenza di una popolazione ancora più anziana di come effettivamente risulta. A tal riguardo, uno tra gli aspetti più interessanti è costituito dalla variegata evoluzione della popolazione anziana, tra l’era pre e post Covid-19, nel momento in cui la si analizza per singole fasce di età. Diversamente da quanto si possa essere portati a ritenere sul piano logico, i margini di crescita più importanti si rilevano tra la popolazione di 90 anni e più e di 100 anni e più, come se questi individui, ritenuti soggetti fragili e pertanto a grosso rischio di complicanze dopo un contagio, possedessero una maggiore immunità al Covid-19. O anche, cosa da non sottovalutare, il fatto che tali soggetti siano stati tra i primi ad essere stati vaccinati può aver rappresentato per loro un sicuro ombrello protettivo. Sta di fatto che il numero di ultracentenari (100 anni di età e più) raggiunge nel 2022 il suo più alto livello, oltrepassando la soglia delle 20 mila unità. Superato il quinquennio 2015-2019, dove si assiste a un temporaneo declino per via dell’ingresso tra gli ultracentenari delle più esigue coorti nate tra lo scoppio del primo conflitto bellico e l’avvio della pandemia da influenza spagnola, negli anni successivi la crescita dimensionale viene agevolata dall’ingresso di coorti assai più numerose in origine.

Non solo, quindi, il numero di ultracentenari risulta quadruplicato nell’arco di appena 20 anni (erano poco più di 5 mila nel 2002) ma, considerando quanto accaduto soltanto negli ultimi 3 anni, la loro crescita va assumendo le sembianze di un’evoluzione a carattere esponenziale (+43%). Questa specifica componente della popolazione sta peraltro facendo registrare incrementi non riscontrati tra nessun’altra fascia di popolazione. Ad esempio, tra i 65-79enni la crescita rilevata tra il 2019 e il 2022 è appena dell’1,5%, mentre tra gli 80-89enni si arriva al 4,3%. Più significativo è l’aumento riscontrato tra i 90-99enni, pari al 7,4%, il che porta a ritenere probabile che negli anni a venire la crescita della popolazione ultracentenaria possa continuare a risultare molto sostenuta.



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