Per molto tempo l’assistenza sanitaria ha divorando il mondo. Dal 1950 al 2009 la spesa americana per ospedali, medici è aumentata dal 5% pari al 17% del Pil. Tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni 2010, la spesa pubblica britannica per la sanità è aumentata del 4% annuo in termini reali, molto più velocemente della crescita economica del 2% annuo. Dal 1980 al 2010 i prezzi francesi complessivi sono aumentati del 150%; il prezzo per la cura di una persona malata o anziana è aumentato del 250%.
E in Italia?
La spesa pubblica italiana sfonda il tetto dei mille miliardi: l’asticella si ferma a quota 1.029 per il 2022, pari al 54,3% del Pil di quest’anno che arriverà a 1.890 miliardi se l’aumento sul 2021 sarà davvero del 3,3% previsto. Uno studio dell’Università Cattolica riferisce che c’è chi sostiene che un aumento della spesa pubblica potrebbe portare a un aumento del Pil e quindi delle entrate fiscali di tale entità da compensare l’iniziale espansione fiscale, determinando così un miglioramento del saldo di bilancio. Secondo la teoria keynesiana che si basa sulla critica alla legge di Say, secondo cui variazioni del tasso di interesse, dei salari monetari e dei prezzi sono in grado di garantire sempre che la domanda aggregata di beni e servizi sia uguale all’offerta aggregata in corrispondenza della piena occupazione del lavoro,non è possibile, che un aumento della spesa (o una riduzione delle tasse) porti ad un aumento del Pil e del gettito fiscale di entità tale da riportare il bilancio al suo equilibrio inziale. E a maggior ragione non è possibile che il bilancio migliori. Un esempio in tal senso è quello della curva di Laffer che prende il nome dal consigliere del Presidente Reagan che sosteneva che riducendo le aliquote d’imposta, in particolare quelle più elevate, si sarebbero incentivate le persone a lavorare di più e questo meccanismo a suo avviso avrebbe concretizzato un aumento del Pil migliorando il bilancio pubblico. L’esperienza che fu fatta durante la presidenza Reagan convinse la quasi totalità degli economisti che la riduzione delle aliquote può certamente avere effetti positivi sulla crescita, ma non al punto da migliorare il bilancio, che anzi in quegli anni peggiorò. Molti economisti sostengono che più che la quantità, conti la qualità degli investimenti e che in generale anche investimenti attentamente valutati e correttamente realizzati non riescono a produrre l’effetto desiderato di migliorare il bilancio pubblico e il saldo di bilancio potrebbe addirittura peggiorare per effetto di un aumento della spesa, ma, partendo da una posizione di deficit, l’aumento del deficit potrebbe essere compensato da un aumento del Pil, portando a una riduzione del rapporto. In realtà, partendo da livelli di deficit relativamente bassi, un tale meccanismo è del tutto irrilevante numericamente. Partendo da un deficit, per esempio del 2 per cento, un aumento del Pil del Pil del 5 per cento (quindi estremamente elevato) porterebbe a una riduzione del rapporto tra deficit e Pil pari al 5 per cento del rapporto stesso e, quindi, solo dello 0,1 per cento del Pil.
Per la Fondazione Gimbe guidata da Nino Cartabellotta il Governo Meloni non punterebbe alcun rilancio della sanità pubblica. “E’ urgente quindi cambio di rotta per evitare il collasso del Ssn”. Cartabellotta su Quotidiano.net è critico sul Documento di economia e finanza approvato lo scorso 11 aprile dal Governo nel quale, dice “si evincono preoccupanti segnali di definanziamento: dal 2025 il rapporto spesa sanitaria/pil al 6,2%, inferiore ai livelli pre-pandemia”. “Programmi e numeri del DEF 2023 confermano che, in linea con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, la sanità pubblica non rappresenta una priorità politica neppure per l’attuale Esecutivo”.
Ma Cartabellottaprosegue negativo: “Il roboante incremento di oltre quattro miliardi di euro nel 2023 è solo apparente: sia perché oltre due terzi (67%) costituiscono un mero spostamento al 2023 della spesa sanitaria prevista nel 2022 per il rinnovo contrattuale del personale dirigente, sia per l’erosione del potere di acquisto visto che secondo l’ISTAT ad oggi l’inflazione acquisita per il 2023 si attesta a +5%, un valore superiore all’aumento della spesa sanitaria che, invece, si ferma a +3,8%”. Nel triennio 2024-2026, a fronte di una crescita media annua del PIL nominale del 3,6%, il DEF 2023 stima quella della spesa sanitaria allo 0,6%. Il rapporto spesa sanitaria/PIL si riduce dal 6,7% del 2023 al 6,3% nel 2024 al 6,2% nel 2025-2026. Rispetto al 2023, in termini assoluti la spesa sanitaria nel 2024 scende a € 132.737 milioni (-2,4%), per poi risalire nel 2025 a € 135.034 milioni (+1,7%) e a € 138.399 (+2,5%) nel 2026.
“La Sanità è una priorità ma i margini sono limitati. Non basta spendere di più per risolvere i problemi”, ha detto la premier Giorgia Meloni. Aggiungendo:“Non vogliamo rinunciare a occuparci di salute, partendo dal potenziamento delle risorse per il personale medico-sanitario, intervenendo per abbattere le liste di attesa. Noi dobbiamo avere un approccio diverso, più profondo. Provare a confrontarci tutti con coraggio, lealtà e verità anche su come quelle risorse vengono spese. Perché non basta necessariamente spendere di più per risolvere i problemi se poi quelle risorse venissero utilizzate in modo inefficiente”.
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