Al museo Gallerie d’Italia di Napoli, fino al 5 maggio 2024 sarà possibile visitare la mostra L’undicesima casa, che presenta le opere degli artisti vincitori della prima edizione del Premio Paul Thorel, ideato e organizzato dalla Fondazione Paul Thorel in collaborazione con Gallerie d’Italia per sostenere i talenti italiani nel campo dell’arte contemporanea. I vincitori Clusterduck (collettivo di Tommaso Cappelletti, Silvia Dal Dosso, Francesca Del Bono, Arianna Magrini, Noel Nicolaus), Jim C. Nedd e Lina Pallotta sono stati selezionati da un comitato di esperti critici d’arte e curatori di arte contemporanea formato da Caterina Avataneo, Lorenzo Gigotti, Elisa Medde e Valentina Tanni e da una giuria composta da Antonio Carloni, Sara Dolfi Agostini e Luigi Fassi, presieduta da Guido Costa, presidente della Fondazione Paul Thorel. “Accogliamo alle Gallerie d’Italia di Napoli un’iniziativa realizzata con Fondazione Paul Thorel, con la quale condividiamo temi importanti quali il sostegno al talento e alla creatività, la committenza di progetti inediti, l’apprezzamento e la curiosità per le più aggiornate espressioni dell’arte. L’undicesima casa“, ha spiegato Michele Coppola, Executive Director Arte, Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo,”conferma inoltre la nostra attenzione per il ruolo della fotografia e del mondo digitale nel raccontare il presente, in piena sintonia con il lavoro che facciamo nel museo di Piazza San Carlo a Torino, in continuo dialogo con le altre sedi di Gallerie d’Italia. Credo che la bellezza degli spazi di via Toledo permetta la piena valorizzazione dei tre artisti vincitori e delle loro originali e coinvolgenti opere.”
Il Premio Paul Thorel, nato per essere un osservatorio sulla scena creativa italiana ed esplorare le arti digitali, individua nella fotografia il proprio linguaggio di ricerca e consiste in una residenza di un mese negli spazi della Fondazione a Napoli, in partnership con Gallerie d’Italia, per permettere la realizzazione di una produzione artistica inedita. Le opere in mostra, create durante la residenza dai vincitori della prima edizione, sono esposte per la prima volta grazie al progetto curato da Sara Dolfi Agostini, che prende il nome da “l’undicesima casa”, quella che in astrologia è la casa delle amicizie, della forza del collettivo, della capacità di imprimere una differenza nella vita sociale.
Il percorso inizia con le opere di Lina Pallotta, formatasi all’International Center of Photography di New York, che utilizza la fotografia per raccontare storie di riscatto, emancipazione e giustizia sociale, volte ad abbattere il muro dell’esclusione imposto da visioni antiprogressiste della società. Pallotta si è immersa nella quotidianità dei femminielli napoletani, per realizzare una collezione di ritratti e di momenti di intimità e lotta per i diritti civili, sotto la guida di Loredana Rossi, vicepresidente dell’ATN – Associazione Transessuale Napoli. Seguono le visioni di Jim C. Nedd – sospese tra sogno e cruda realtà – che ha fotografato un gruppo di giovani napoletani, un corpo sociale, in un atto spontaneo di comunione con una natura primigenia. Jim C. Nedd è il fondatore del gruppo sperimentale Primitive Art insieme a Matteo Pit; fotografo e regista in progetti pubblicitari ed editoriali, è stato membro del team del magazine Toilet Paper di Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan (2015-2020). Le sue fotografie sono in grado di creare ponti fra scale apparentemente lontane, facendo coesistere geografie diverse, folle estatiche in festa ed episodi di vita personale. Infine, Clusterduck che lavora al crocevia tra ricerca, design e transmedialità, ricostruisce le icone, i simboli e le istanze delle subculture di internet, a partire dell’era dei forum e delle pagine statiche, fino a quella dei social media e dell’ipercondivisione controllata dalle multinazionali della Silicon Valley e da governi autocratici, alla ricerca di libertà e significato.
GLI ARTISTI
Clusterduck è un collettivo interdisciplinare che lavora al crocevia tra ricerca, design e transmedialità, focalizzandosi sui processi e sugli attori implicati nella creazione partecipata di contenuti digitali e nella loro circolazione su internet. Al centro del loro lavoro c’è la ridefinizione dello statuto dell’immagine nella società dell’informazione, e in particolare la mappatura della cultura dei meme – un universo digitale di immagini, video e codici testuali, straniante e in continua espansione, che racconta identità, appartenenza e modalità di comunicazione del popolo della rete. Con #MEMEPROPAGANDA (2018-2020), Clusterduck ha esplorato l’impatto dei meme sull’estetica e sulla politica contemporanea, mentre con #MEMERSFORFUTURE (2020-2023) ha indagato il ruolo della memetica nel movimento globale per la giustizia climatica. Meme Manifesto (2021-2024), invece, è stato pensato per esplorare i significati occulti e le potenzialità comunicative della simbologia memetica.
Il progetto artistico Deep Fried Feels si concentra su sette sentimenti scelti tra i più condivisi nella rete e nello spazio digitale negli ultimi anni. Nel gergo di internet si chiamano “feels” e sono forse uno degli ultimi appigli umani in una realtà virtuale sempre più complessa e opaca, dove la proliferazione di piattaforme social, programmi aumentati dall’uso di intelligenze artificiali, BOT, strumenti di sorveglianza globale, fake news e propaganda ideologica hanno ridotto gli spazi di azione e libertà degli utenti. Ogni feel è rappresentato da un personaggio della cultura memetica, un’immagine “povera” e a bassa risoluzione che è stata sottoposta a tecniche di editing digitale ispirate all’estetica dei cosiddetti “fried memes” (meme fritti). Si tratta di immagini surreali e sinestetiche, caricate, scambiate e degradate fino a diventare il paradigma involontario di una comunità sovversiva e politicizzata, che resiste alle dinamiche capitalistiche della rete. Le sette icone del folklore memetico sono ambientate nell’era delle piattaforme social e dell’ipercondivisione (2008-2018), in cui i meme erano usati per comunicare sentimenti specifici. Ognuna di loro è stata quindi associata a un dettaglio dalla forte carica simbolica e a due immagini, corrispondenti ad altre epoche di internet conosciute dagli artisti, tutti millennials. Da un lato, l’era attuale dello Stack (dal 2019), in cui le infrastrutture, in competizione l’una con l’altra, le intelligenze generative e i metaversi rischiano di danneggiare il potere aggregante dei codici culturali ed estetici di internet. Dall’altro, l’era del web 1.0 (1989-2005) – origine di tutto e “paradiso perduto” – rappresentata dal dithering e dai pixel esplosi sullo schermo: un periodo di magia e scoperta, tra pagine statiche e connessioni lente, di forum, chat e anonimato, dove sembrava ancora possibile sfuggire alle logiche proprietarie e autoritarie dell’internet di oggi. Jim C. Nedd crea interazioni tra mondi lontani, facendo coesistere nella stessa immagine geografie e culture diverse – la Colombia caraibica e l’Italia, nuovo e vecchio mondo – ma anche modi distinti di vedere, sentire e percepire storie di vita vissuta. La sua ricerca lo porta a filtrare esperienze personali e collettive, racconti orali e cultura popolare attraverso cui propone uno sguardo critico sulla società, sulle dinamiche interculturali del fenomeno migratorio che lo ha riguardato personalmente, e in generale sul corpo individuale e il tessuto sociale che lo circonda. Le sue opere – fotografie, video, diaporami – mostrano squarci di vita quotidiana, momenti di condivisione o affermazione sociale, spesso l’estasi di una festa o di un evento musicale.
Tra derive multisensoriali, luci crepuscolari e contrasti cromatici, Nedd inserisce persone, fluidi e oggetti discreti; riferimenti a un mondo ordinario, a uno spazio carico di simbologie dove rinvenire tracce di identità. Ne emergere una realtà porosa e in trasformazione, poco importante se oggetto di una performance o di un rituale spontaneo. L’artista non condivide informazioni di contesto, preferendo situarsi al confine tra neorealismo e speculazione narrativa. Le sue immagini fotografiche, pur immerse in atmosfere oniriche, quasi magiche, sono fortemente ancorate alla realtà: icone di una resistenza sociale e culturale ai meccanismi sistemici di gentrificazione urbana, essi stessi innesti di storie migratorie.
In The Stream – Take 2 e The Stream – Take 3, Jim C. Nedd offre un re-enactment di un’opera pittorica, il trittico The Stream dell’artista simbolista belga Léon Frédéric, realizzato nel 1890-1899. Il dipinto, famoso e controverso, esprime l’osmosi tra umano e naturale tipico del genere canonico dei bagnanti, tuttavia i corpi nudi sono fanciulleschi e l’azione caotica lascia margine per una riflessione più profonda ed esistenziale. Nell’interpretazione contemporanea di Nedd, un gruppo di giovani napoletani reclutati con uno street casting si confronta con l’imponente cascata di Conca della Campania, non più paesaggio e scenografia, ma soggetto senziente al pari dei loro corpi sociali, esposti al confronto con la storia dell’arte e con un’esperienza estrema e inedita. Il corpo, frammentato e contaminato da elementi estranei come un apparecchio dentale e dei punti di sutura, torna rispettivamente in Fernandino e La Sottile Linea Partenopea, due opere accidentali realizzate durante la residenza a Napoli, che si inseriscono in modo più esplicito in territori al confine tra rotte di collisione con la realtà e la possibilità tangibile di un’esperienza catartica. La rappresentazione del collettivo si ripropone, invece, in Costo Adicional, un altrove metropolitano dove un muro di condizionatori disposti a griglia, identici, sembra contrapporsi metaforicamente ai corpi frenetici dei giovani napoletani.
Lina Pallotta si trasferisce negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80 per formarsi all’International Center of Photography (ICP) di New York in fotogiornalismo e fotografia documentaria. È lì che intraprende un lavoro intimo e poetico ritraendo amici, colleghi, poeti e performer per oltre vent’anni. Successivamente torna in Italia, a Roma, dove prosegue la sua attività come artista, documentarista e accademica, e dove vive ancora oggi. La metodologia di Pallotta è muoversi al di fuori delle narrazioni istituzionali inseguite dai mass media, alla ricerca di storie private e di spazi psico-geografici in cui squarci di vita vissuta si fondono con significati di matrice socio-culturale, fuori da cliché e stereotipi. Nelle sue immagini si legge una complicità tra autrice e soggetto, un’alleanza empatica fondata su un progetto di riscatto, emancipazione e giustizia sociale, volto ad abbattere il muro dell’esclusione imposto da visioni antiprogressiste della società. La sua prima mostra personale in un’istituzione pubblica italiana, Volevo vedermi negli occhi al Centro Pecci di Prato nel 2023, era un ritratto di Porpora Marcasciano, attivista trans, nel quale Pallotta ha declinato trent’anni di amicizia e militanza politica.
Le opere fotografiche in mostra si situano all’interno di un progetto di collaborazione con Loredana Rossi, iniziato nel 2011 e nato dall’amicizia in comune con Marcasciano. Rossi è fondatrice e vicepresidente dell’ATN – Associazione Transessuale Napoli, un’organizzazione non governativa che tutela i diritti, la salute e la dignità delle persone trans da ogni forma di discriminazione e violenza, fornendo sostegno nel percorso di transizione e cambio di sesso. Durante la residenza, Pallotta si è immersa nella quotidianità di Rossi e della comunità di persone trans e femminielli di diverse generazioni che hanno trovato in lei un punto di riferimento e una fonte di ispirazione nel percorso di esplorazione e di ricerca della propria identità di genere. In modo spontaneo, il progetto è arrivato negli spazi della Fondazione Paul Thorel, dove l’artista ha realizzato i suoi primi ritratti in studio e si è avventurata per la prima volta nel campo del colore, per enfatizzare i numerosi segni di una ricerca identitaria che abbraccia ogni aspetto della vita della persona. In Voce ‘e stommache, Pallotta trasferisce una selezione di fotografie su una superficie specchiante che riflette con stile diaristico la pluralità di storie della comunità trans napoletana e contiene al contempo i corpi dei visitatori. In un tentativo di accorciare le distanze tra vita e narrazione, l’artista sceglie di condividere una socialità scandita da istanti discreti – dal trucco alla spesa, dall’aperitivo all’evento – costellati da gesti di pace, sorrisi, abbracci e un senso diffuso di sorellanza.
INFORMAZIONI
Titolo
L’UNDICESIMA CASA
Lina Pallotta, Clusterduck (Tommaso Cappelletti, Silvia Dal Dosso, Francesca Del Bono, Arianna Magrini e Noel Nicolaus) e Jim C. Nedd
Sede
Gallerie d’Italia – Napoli, museo di Intesa Sanpaolo
Via Toledo 177, 80134 Napoli
Orari
dal martedì al venerdì dalle 10.00 alle 19.00
sabato e domenica dalle 10.00 alle 20.00
lunedì chiuso – ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
Biglietti
intero 7 €, ridotto 4 €
ingresso gratuito per convenzionati, scuole, minori di 18 anni e clienti del Gruppo Intesa Sanpaolo
Info e prenotazioni
http://www.gallerieditalia.com
Numero Verde 800.167619
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