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Italia: welfare e gender gap, ecco cosa c’è e cosa manca


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Photo by Antoni Shkraba on Pexels.com

Le aziende non sono abbastanza attente al benessere dei lavoratori. L’allarme arriva direttamente dai dipendenti e la percentuale di chi si lamenta è davvero allarmante. Secondo i dati del 7° Rapporto Censis-Eudaimon, infatti, il 61,7% dei lavoratori dichiara che l’azienda in cui lavora non è attenta al benessere psicofisico dei propri dipendenti. Entrando più nel dettaglio, a sostenere questa tesi sono il 62,3% degli impiegati, il 68,4% degli operai e il 39,2% dei dirigenti. Le cose cambiano quando si fa riferimento a categorie specifiche di lavoratori più vulnerabili. In questo caso reputano adeguata l’attenzione aziendale il 61,5% degli occupati in relazione alle esigenze di chi ha figli, il 71% a quelle delle donne che rientrano dalla maternità, il 62,9% alle esigenze delle persone con salute fragile. Sono giudizi positivi importanti, anche se va segnalato che tra le donne occupate sono sistematicamente più alte, rispetto ai maschi, le quote d’insoddisfatte dell’attenzione aziendale per chi ha figli, per le lavoratrici che rientrano dalla maternità e per le persone con salute fragile. Il 52,4% valuta positivamente l’attenzione aziendale alle condizioni basiche dei lavoratori, a cominciare dalla sicurezza, ma le donne esprimono un giudizio un po’ meno positivo. Netta è la diversità di valutazione tra dirigenti e quadri da un lato e impiegati e operai dall’altro. Infatti, mentre i primi valutano come adeguata l’attenzione aziendale alle problematiche ed esigenze di persone con figli, donne al rientro dalla maternità e persone con salute fragile, i secondi sono molto meno positivi nei giudizi con una drastica caduta delle quote che appunto valutano adeguata l’attenzione aziendale.

“Il welfare aziendale ha la caratteristica forse unica di permettere al datore di lavoro di intervenire in maniera mirata in base alla tipologia di popolazione presente in azienda”, spiega Alberto Perfumo, CEO di Eudaimon, prima Società a occuparsi di Welfare in Italia. “Inoltre, sempre nel rispetto della omogeneità delle categorie di lavoratori, l’azienda può fornire soluzioni mirate e risposte reali ai bisogni dei propri dipendenti a prescindere dai tradizionali inquadramenti aziendali. Questo vale anche in materia di salute e benessere dove sono davvero molte le opzioni per supportare i dipendenti: formazione, educazione, identificazione del bisogno, impostazione di un corretto work-life balance, accesso alla prevenzione e/o al supporto specialistico sono tutti ambiti in cui l’azienda può intervenire grazie al welfare”.  

Una situazione che si riscontra anche a livello internazionale. In un sondaggio riportato da Yahoo Finance, l’85% dei dirigenti aziendali intervistati ha dichiarato di essere a conoscenza di dipendenti nella propria organizzazione che stanno vivendo il rischio burnout. Circa il 54% dei lavoratori intervistati ha dichiarato di aver sperimentato burnout o problemi relativi alla salute mentale nell’ultimo anno, con il settore finanziario e IT che hanno registrato i tassi più alti di burnout, rispettivamente al 58% e 55%. Inoltre, il 47% dei lavoratori ha dichiarato che migliorare la salute mentale e il benessere era una priorità per la loro carriera nel 2024. Un aiuto alle imprese arriva dal welfare aziendale e sono gli stessi lavoratori ad apprezzarlo visto che secondo il Rapporto Censis-Eudaimon l’84% degli occupati dichiara che nella propria azienda sarebbe importante introdurre o potenziarlo. In quest’ottica non va sottovalutata la possibilità d’inserire in azienda la figura del welfare coach, consulente con il compito d’individuare le soluzioni migliori per rispondere alle esigenze dei lavoratori. Questo renderebbe possibile personalizzare ancora più attentamente l’offerta di welfare aziendale disegnandola su misura per ogni singolo lavoratore.

Antonella Giachetti, presidente di Aidda

Pay Gap, donne Imprenditrici: “Il divario retributivo è troppo ampio: la parità deve partire da qui

“I dati sul Gender Pay Gap mostrano ancora una volta un disequilibrio di sistema della nostra società: il divario in Italia è troppo ampio, peggior dato dell’area Ocse, servono misure per contrastare questa situazione strutturale la cui causa principale si annida proprio nella necessità di molte donne di dividersi tra lavoro e famiglia  La parità deve partire da qui, servono misure che aiutino le giovani madri e non le costringano a dover scegliere tra lavoro e famiglia”. A dirlo è Antonella Giachetti, presidente di Aidda – Associazione Donne Imprenditrici, commentando i dati di Ocse Education at a Glance 2024, il Rapporto dell’Ocse sull’istruzione, secondo cui le giovani donne laureate in Italia guadagnano il 58% in meno rispetto ai propri coetanei uomini. “La fotografia dell’Ocse preoccupa e conferma un problema strutturale del nostro paese – continua Giachetti –. Il tema riguarda sia la diversità di stipendi che l’occupazione: nonostante ottengano risultati scolastici migliori, le donne tra i 25 e i 34 anni hanno meno probabilità di essere occupate rispetto agli uomini. Sono necessarie misure che garantiscano alle donne il diritto di decidere il proprio destino professionale, bisogna tutelare le donne, che si fanno maggior carico del supporto alla famiglia in termini di cura, non solo dei figli, ma anche dei genitori e dei nonni”.

“Come Aidda”, prosegue Giachetti, “da tempo abbiamo lanciato la proposta di defiscalizzare le spese legate alla maternità e in genere alla cura della famiglia sostenute dalle donne, con la consapevolezza  che servirebbero urgentemente altre misure strutturali: nuovi asili nido, potenti interventi sulle infrastrutture sociali in genere e l’ampliamento dei servizi di prossimità. Intanto però la politica potrebbe rendere immediatamente deducibili dal reddito i costi sostenuti per babysitter e badanti e collaboratrici domestiche sostenute da donne che hanno un lavoro. La parità deve partire da qui”.



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