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L’accesso alla salute? E’ un diritto inviolabile. E l’aborto? Ecco il report di Medici nel Mondo


group of doctors doing operation inside room
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Medici del Mondo, rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute, ieri è tornata ad accendere i riflettori sul tema dell’aborto con la ricerca “Aborto a ostacoli. Tra iniziative promosse a livello nazionale e politiche anti-scelta in diverse Regioni, l’indagine delinea un vero e proprio attacco sistematico all’accesso all’IVG, che ostacola un diritto che dovrebbe invece essere garantito, con gravi pregiudizi alla salute mentale delle donne. Ieri alla Camera dei Deputati, presso la Sala del Refettorio di Palazzo S. Macuto, la ricerca è stata presentata da Elisa Visconti, Direttrice di Medici del Mondo e Gianluca Ferrario, Coordinatore Medico, che hanno dialogato sul tema insieme alla deputata Gilda Sportiello del Movimento 5 Stelle e ad esponenti del mondo dell’attivismo come Federica di Martino, psicoterapeuta e creatrice di “IVG ho abortito e sto benissimo” e Olimpia Capitano di Obiezione Respinta. «La ricerca evidenzia quanto ancora siamo lontani dalle raccomandazioni dell’OMS e da quanto previsto dalla nostra Costituzione in merito al diritto alla salute che dovrebbe essere garantito dai Livelli Essenziali di Assistenza. E ciò a causa di una chiara volontà politica che può avere conseguenze sulla salute mentale delle persone che vogliono abortire”, ha spiegato Elisa Visconti, Direttrice di Medici del Mondo Italia. Come organizzazione medico sanitaria, chiediamo al Ministero della Salute di adeguare la normativa e le procedure in materia di IVG recependo integralmente le raccomandazioni dell’OMS del 2022 e di garantire un sistema sanitario davvero capace di garantire il diritto all’aborto. Riteniamo inoltre necessari l’aumento del limite legale di età gestazionale in cui è possibile ricorrere all’IVG, l’abolizione dell’attesa forzata e dell’obiezione di coscienza. L’interruzione volontaria di gravidanza deve essere considerata esclusivamente come un atto medico, privo di connotazioni ideologiche, volto a garantire la tutela della salute psicofisica della persona gestante». “Le violenze e i tanti ostacoli che ancora esistono nel nostro paese, minano il diritto di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza”, ha dichiarato la deputata del M5S Gilda Sportiello. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo approfondito, guardando ai dati, qual è la situazione nel nostro paese con l’obiettivo di smontare la narrazione colpevolizzante delle persone che decidono di abortire, per dire ancora una volta che non deve esserci posto per gli antiabortisti nei consultori e nei luoghi della sanità pubblica, per denunciare l’utilizzo dei fondi pubblici per finanziare associazioni private anti scelta, e per raccontare ancora una volta, i troppi ostacoli che si frappongono tra le persone e il diritto all’autodeterminazione, tra le persone e il diritto alla salute. E mentre nel nostro paese si fa sempre più grave l’attacco ai diritti, nel Regno Unito verranno individuate zone interdette agli antiabortisti: sarà illegale qualsiasi azione volta, intenzionalmente o incautamente, a molestare le persone che hanno deciso di interrompere una gravidanza. Una decisione necessaria che dovrebbe essere norma anche nel nostro paese- conclude Sportiello.

UNA QUESTIONE POLITICA

Già lo scorso anno, con il primo report “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, Medici del Mondo aveva ben documentato come numerose barriere rendano l’IVG nel nostro Paese una corsa a ostacoli e contro il tempo: l’enorme difficoltà a reperire le informazioni sull’iter da seguire, la mancanza di consultori e gli elevati tassi di obiezione di coscienza, fino alla mancata o parziale applicazione delle Linee di Indirizzo del Ministero della Salute del 2020 rispetto all’aborto farmacologico – pratica che, secondo l’OMS, è sicura al punto da poter essere effettuata “dalla donna a casa o in telemedicina” fino alla dodicesima settimana, rendendo le linee guida ministeriali del 2020 già datate. Senza contare che, salvo alcune avanguardie (come Lazio ed EmiliaRomagna), la pillola abortiva (RU486) in Italia continua a essere considerata un farmaco rischioso, nonostante in Europa la si utilizzi da oltre 30 anni. Chi vuole interrompere la gravidanza si trova quindi davanti ad una lunga serie di ostacoli pratici – ed anche economici, considerati i costi di doversi muovere in città o addirittura regioni diverse per poter abortire. Ma non solo. Tra proposte di legge per l’ascolto forzato del “battito fetale” o per il riconoscimento della capacità giuridica del feto, lo stanziamento di fondi pubblici a favore di gruppi che lottano contro il diritto all’aborto che la legge dovrebbe tutelare, e, ancora, la normalizzazione di pratiche aberranti come i cimiteri dei feti, nel nostro Paese la lotta all’aborto si è fatta sempre più violenta attraverso vere e proprie politiche di deterrenza. La legge 194, del resto, lascia ampi margini di manovra, grazie ad alcuni passaggi specifici – oltre che l’impianto generale – che consentono, con la complicità delle amministrazioni locali, l’ingresso e l’ingerenza di gruppi antiabortisti nei luoghi della sanità pubblica. È il caso dell’emendamento all’articolo 44 del ddl per l’attuazione del PNRR, approvato lo scorso 23 aprile dal Senato, che dà alle Regioni il potere di avvalersi, all’interno dei consultori, “di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. Che, spesso, coincidono con gruppi contro l’aborto. Come i CAV – Centri di aiuto alla vita del Movimento per la Vita (MpV), primo movimento antiabortista nato dopo la legge 194: in Italia ce ne sono oltre 400, di cui almeno una trentina all’interno di ospedali pubblici. Emblematico il caso del Piemonte dove, all’ospedale Sant’Anna, i volontari MpV gestiscono uno sportello per le donne che vogliono interrompere una gravidanza, offrendo un sostegno economico una tantum a chi sceglie di non abortire. Le risorse provengono dal “Fondo Vita Nascente” della Regione, nato nel 2022 con lo stanziamento di 400 mila euro, salito quest’anno a 1 milione.

UNA VIOLENZA PSICOLOGICA SISTEMICA E I RISCHI PER LA SALUTE MENTALE

Già da questi pochi esempi è facile capire perché l’Italia sia stata spesso richiamata a livello internazionale sulla garanzia di accesso all’IVG. La risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo sull’inclusione del diritto di aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, approvata lo scorso aprile, chiede agli Stati membri di rimuovere gli ostacoli al servizio come raccomandato dalle linee guida dell’OMS del 2022, di garantire l’accesso a istruzione ed educazione sessuale e riproduttiva e ad assistenza di alta qualità, e di fermare i finanziamenti dell’UE ai gruppi anti-scelta. Nel testo vengono citati alcuni Paesi in cui il diritto non è pienamente garantito e in Italia, si osserva, “l’accesso all’assistenza all’aborto sta subendo erosioni”. E non si tratta “solo” degli ostacoli fin qui descritti. Le testimonianze raccolte da diverse associazioni e riportate nel report di Medici del Mondo parlano di situazioni al limite: atteggiamenti ostili e linguaggio offensivo del personale sanitario (“Potevi pensarci prima”, “Queste ragazzine sempre con le gambe aperte”), psicologi e psicologhe che chiedono continuamente “sei sicura?”, medici che non si presentano agli appuntamenti appositamente per allungare i tempi, donne costrette ad ascoltare il “battito fetale” e a firmare, contro la loro volontà, per la sua sepoltura. Una vera e propria violenza psicologica (e fisica, se si considerano gli antidolorifici volutamente negati dopo la procedura), sistemica e costantemente aggravata dai ripetuti tentativi dei gruppi antiabortisti di umanizzare l’embrione e criminalizzare la persona che ha scelto di interrompere la gravidanza, cercando di creare sensi di colpa. Il risultato? Ai numerosi ostacoli che chi vuole abortire deve affrontare, si somma un del tutto inutile trauma emotivo. Secondo l’OMS, una normativa restrittiva sull’aborto può causare angoscia e stigmatizzazione e rischia di costituire una violazione dei diritti umani, oltre a imporre oneri finanziari. Sulla stessa linea lo studio Turnaway – l’analisi sull’interruzione di gravidanza condotta da Advancing New Standards in Reproductive Health (ANSIRH) presso l’Università della California, San Francisco -, che dimostra che le donne che incontrano barriere (di qualsiasi tipo), che ritardino o rendano più difficoltoso l’accesso alla IVG, presentano maggiormente stress, ansia e depressione. Le donne a cui è stata negata l’IVG, rispetto a quelle che hanno potuto abortire, hanno riportato anche maggiori difficoltà economiche e maggiore probabilità di vivere in stato di povertà, di rimanere legate a un partner violento o di crescere i figli da sole. Al contrario, le donne che hanno interrotto una gravidanza indesiderata non provano rimpianto, dolore né tantomeno disturbo da stress post-traumatico: l’emozione più comunemente provata è il sollievo, con ben il 99% delle donne che ha dichiarato che l’interruzione di gravidanza è stata la decisione giusta.

ABORTO: QUALCHE NUMERO

L’aborto non sicuro è una delle principali cause di mortalità materna a livello internazionale. Dei circa 121 milioni di gravidanze indesiderate che si verificano ogni anno nel mondo, il 60% si conclude con un aborto. Di questi aborti, il 45% avviene in condizioni non sicure, a causa dell’accesso limitato al servizio. I numeri dell’OMS parlano di 39.000 decessi all’anno e di 7 milioni di persone costrette all’ospedalizzazione. Si stima, inoltre, che oltre 20 milioni di donne in Europa non abbiano accesso all’aborto. A questo proposito, in Italia, una delle questioni più rilevanti è l’obiezione di coscienza. Secondo il Ministero della Salute, nel 2021 in Italia si è dichiarato obiettore il 63,4% dei ginecologi (con picchi dell’85% in Sicilia, 84% in Abruzzo e 77,8% in Molise), il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico. In Italia effettuano IVG il 59,6% delle strutture con reparto di ostetricia e ginecologia (nel 2020 erano il 63,8%), con forti differenze tra le regioni. Sono disponibili 2,8 punti IVG ogni 100.000 donne in età fertile. I valori più bassi si registrano in Campania (1,5 punti IVG per 100.000 donne), Molise (1,8) e nella provincia autonoma di Bolzano (1,8). La fotografia del Ministero, però, non è esaustiva. Secondo la ricerca Mai dati dell’Associazione Luca Coscioni, in 22 ospedali (e 4 consultori) la percentuale di obiettori di coscienza tra il personale sanitario è del 100%, in 72 è tra l’80 e il 100%. In 18 ospedali c’è il 100% di ginecologi obiettori. Altro sintomo di una rete sanitaria non adeguata a garantire l’accesso a cure abortive è il numero di Consultori Familiari (CF), primo punto di accesso e informazione per indirizzare nel percorso per l’IVG. L’Indagine nazionale 2018-2019 dell’Istituto Superiore di Sanità rileva un centro ogni 32.325 abitanti, contro la proporzione prevista dalla Legge 34/1996 di uno ogni 20.000 abitanti, con cinque Regioni con un rapporto superiore a 40.000 residenti per CF. Inoltre, rispetto allo standard di riferimento stabilito nella Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della legge 194 al Senato nell’anno 1995, il valore medio delle ore di lavoro settimanali è inferiore di 6 ore per la ginecologia, di 11 per l’ostetricia, di una per la psicologia e di 25 per l’assistenza sociale. Non solo: secondo l’ultima relazione annuale del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194 presentata nel 2023, nel 2021 i consultori che effettuano counselling per l’IVG e rilasciano certificati rappresentano il 68,4% del totale (l’anno prima erano il 69,9%). Negli anni, comunque, i consultori hanno raddoppiato la frequenza di rilascio della documentazione per l’IVG, passando dal 24,2% del 1983 al 42,8% del 2021. Il 53% di coloro che si rivolgono ai consultori per ottenere il certificato sono persone straniere. I consultori sono anche i luoghi individuati dalle linee di indirizzo emanate nel 2020 per accedere all’aborto farmacologico in regime ambulatoriale – seppur al momento solo tre regioni si siano adeguate a queste previsioni (Lazio, EmiliaRomagna e Toscana). FOCUS ABORTO IN 3 REGIONI LOMBARDIA. Pioniera della collaborazione tra amministrazione regionale e movimenti contro l’aborto è la Regione Lombardia, che per prima, nel 2010, ha istituito un fondo gestito dal MpV. Non a caso, qui, la rete dei CAV è capillare, spesso all’interno degli ospedali, ma anche nella rete consultoriale. Grazie a una delibera della giunta regionale promossa nel 2000 dall’allora presidente Formigoni, poi, “i consultori familiari privati accreditati possono escludere dalle prestazioni rese quelle previste per l’interruzione volontaria di gravidanza”, legittimando, di fatto, l’obiezione di struttura vietata dalla legge 194. «Più di un terzo dei consultori considerati pubblici perché accreditati e pagati dalla Regione sono cattolici e quindi non si interessano delle IVG» denuncia la dottoressa Daniela Fantini, ginecologa referente di AGITE Lombardia – Associazione GInecologi TErritoriali. Un problema grave se si considera che gli attuali consultori (129 pubblici e 86 privati) sono ben al di sotto della proporzione 1 ogni 20 mila abitanti previsto per legge. Ancora più difficile, poi, l’accesso all’IVG farmacologica: secondo i dati della consigliera del PD lombardo Paola Bocci, nel 2023 le IVG farmacologiche sono state circa il 49% del totale e 11 strutture pubbliche su 50 non le praticano. Lodi è la provincia più virtuosa (78%), Brescia, Cremona, Milano Città, Monza e Brianza, Sondrio, Como sono sotto il 50%, la provincia di Milano è ultima al 29%. Il tasso di obiezione di coscienza tra il personale sanitario è in media del 53%, con punte oltre il 70% in provincia di Bergamo. Inoltre, secondo il Ministero, il 21,8% delle persone devono attendere da 15 a 21 giorni o più per una IVG. Senza contare il tempo perso a causa della difficoltà a reperire informazioni su come accedere all’IVG in Lombardia. UMBRIA. La Regione Umbria non è nuova alla presenza e alla vicinanza di associazioni antiabortiste. A giugno 2020 la giunta della presidente Donatella Tesei aveva abrogato la possibilità di accedere all’IVG farmacologica in day hospital o al proprio domicilio, prevedendo un ricovero di tre giorni, proprio nelle stesse settimane, in piena pandemia di COVID-19, in cui la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia raccomandava il ricorso alla RU486 per evitare di intasare gli ospedali. A dicembre 2020 la giunta è stata costretta a rivedere la delibera, consentendo la RU486 fino alla nona settimana, ma esclusivamente in ospedale. RU486 che, fino a gennaio di quest’anno, all’ospedale di Perugia non era disponibile, come fa notare Marina Toschi, ginecologa della Rete Italiana Pro-Choice, ricordando che talvolta, specialmente negli scorsi anni, capitava che le donne fossero costrette a recarsi in Toscana. I problemi riguardano anche le attese: mancano i medici, gli obiettori di coscienza sono il 63,9% dei ginecologi, con picchi del 100% all’ospedale di Castiglione del Lago e dell’83% a Foligno, secondo l’indagine “Mai Dati” di Chiara Lalli e Sonia Montegiove. Intanto, a luglio 2024 ha avuto il suo primo sì la proposta della consigliera della Lega Paola Fioroni di una legge regionale che prevede integrazioni e modifiche al Testo unico in materia di sanità e servizi sociali per favorire “interventi volti a prevenire e a rimuovere le difficoltà economiche, sociali e relazionali che possano indurre all’interruzione di gravidanza, anche attraverso apposite convenzioni con soggetti non istituzionali”. Nello stesso periodo è stato approvato l’atto di indirizzo proposto sempre dalla Lega che chiede alla giunta Tesei il finanziamento di “interventi di promozione e realizzazione di progetti individuali di accompagnamento alla gravidanza, di promozione del valore sociale della maternità da parte di organizzazioni e associazioni operanti nel settore della tutela materno-infantile”. MARCHE. Se esiste un “modello Marche”, va tutto nella direzione di porre barriere nell’accesso all’IVG e alla salute sessuale e riproduttiva. Nel 2023, i 66 consultori della regione sono aperti in media 11 ore a settimana, solo 26 rilasciano la certificazione per l’IVG e solo 24 hanno tutte e quattro le figure previste per legge (personale specializzato in ginecologia, ostetricia, assistenza sociale e psicologia). E il territorio è molto frammentato: in sette consultori l’obiezione di coscienza è al 100% tra personale specializzato in ginecologia e ostetricia, e in 18 il tasso va dal 40 al 67%. Ci sono poi i consultori privati, di cui 10 della Federazione Marche dei Consultori cattolici, che svolgono quasi esclusivamente attività di tipo sociale. Negli ospedali di Fermo e Jesi l’obiezione di coscienza è al 100%, a Senigallia, Civitanova e Fano tra l’80% e il 90%. A questo si aggiungono le scelte politiche, come quelle riguardanti la IVG farmacologica: nelle Marche si può accedere alla RU486, considerata ancora “procedura sperimentale”, solo entro la settima settimana e solo in alcuni ospedali. Nel 2022 le IVG farmacologiche nelle Marche sono state il 20,7% di tutte le procedure effettuate. A Jesi, Fabriano, Civitanova Marche e Pesaro il servizio non viene offerto. L’11,3% delle IVG effettuate dalle residenti nelle Marche avviene in altra regione e il 18% fuori dalla provincia di residenza. Nel frattempo, dopo aver interrotto nel 2022 la convenzione che l’Aied – Associazione Italiana per l’Educazione Demografica di Ascoli Piceno aveva avviato nel 1981 con l’ospedale locale per l’attuazione della legge 194, la Regione finanzia associazioni confessionali e si prepara a dare seguito a quanto previsto nel decreto PNRR.



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