La vicepresidente Kamala Harris il 20 gennaio 2025, ossia quando Trump assumerà ufficialmente la carica di 47esimo presidente degli Stati Uniti e JD Vance di vicepresidente, lascerà il suo incarico politico politico. Così, dopo avere lavorato in politica per 20 anni ininterrottamente, ricoprendo il ruolo di procuratore distrettuale di San Francisco, procuratore generale della California e senatore junior del Golden State, prima di essere eletta vicepresidente nel 2020, ottenendo una serie di primati storici lungo il suo percorso: prima donna, afroamericana e indoamericana in uno dei primi due incarichi e nel secondo, prima senatrice indoamericana, ora però è fuori dai giochi. Come si legge in tanti meme e video che riassumono le ultime tappe delle elezioni “she’s fired”. Molti ora si domandano quali saranno i suoi prossimi passi e impegni. Quello che è certo è che non abbandonerà la scena politica, perché comunque nonostante tanti impedimenti, ha fatto comunque del suo meglio. Ma è entrata in competizione con Trump troppo tardi, pagando il fatto che per 4 anni è sempre stata una figura ombra al fianco di Biden e pagando anche il fatto che Biden, anche dopo l’addio, ha voluto comunque continuare a marcare il territorio.
Venerdì l’ex presidente della Camera Nancy Pelosi ha attribuito la colpa della sconfitta elettorale della vicepresidente Kamala Harris al presidente Biden, affermando che avrebbe dovuto ritirarsi prima dalla corsa. Intervenuta nel podcast del New York Times, la Pelosi ha affermato che l’uscita tardiva di Biden ha reso impossibile per i democratici tenere le primarie. “Se il presidente se ne fosse andato prima, ci sarebbero potuti essere altri candidati in lizza”, ha detto la Pelosi in un’intervista con Lulu Garcia-Navarro sul podcast The Interview del Times. “Ci si aspettava che, se il presidente si fosse fatto da parte, ci sarebbero state delle primarie aperte”, ha continuato. Va ricordato poi che la Pelosi , ha avuto un ruolo determinante nel fare pressione su Biden affinché si ritirasse definitivamente dalla corsa, e tuttora continua a sottolineare che se le primarie fossero state indette molto prima, la Harris avrebbe potuto essere una candidata più forte perché avrebbe avuto più tempo per testare i messaggi e presentarsi al pubblico americano. Ma indietro non si può tornare e resta nella storia il fatto che Biden seppure entro un’ora dal suo ritiro dalla corsa presidenziale del 21 luglio ha appoggiato la Harris per sostituirlo nella lista, poi meno di 36 ore dopo, ne ha bloccato la nomination vincendo la maggioranza dei delegati. Durante l’intervista con il Times, la Pelosi ha anche rimproverato il senatore Bernie Sanders, indipendente del Vermont, che ha affermato che la sconfitta elettorale è dovuta al fatto che il Partito Democratico “ha abbandonato la classe operaia”.
“Bernie Sanders non ha vinto”, ha detto. “Con tutto il rispetto, e ho molto rispetto per lui, per ciò che rappresenta, ma non lo rispetto quando dice che il Partito Democratico ha abbandonato le famiglie della classe operaia”. Infine la Pelosi ha attribuito la sconfitta elettorale a questioni culturali, che hanno creato disaffezione. “Armi, Dei e gay, è così che lo dicono”, ha detto. “Armi, questo è un problema; gay, questo è un problema e poi hanno reso la questione trans un problema prioritario sbagliando”.
Non che inneggiare alla libertà, per le opportunità, per l’equità e la dignità di tutte le persone sia sbagliato. Ci mancherebbe! Ma questa lotta per gli ideali messa al centro della sua campagna politica, ha fatto poi deragliare la Harris. Perché in un momento storico in cui anche i portafogli degli americani hanno dovuto fare i conti con un’impennata di aumenti in molti settori, e le classi medie oltre a quelle operaie che di fatto sono quelle che poi portano sulle spalle interi paesi, hanno mostrato un’insofferenza sempre più crescente ecco …questo era il sentiment che doveva essere compreso meglio e messo al centro. La Harris ci ha anche provato a fare una corsa contro il tempo facendo abbassare il costo delle assicurazioni e dei medicinali, ma si sa che le cose fatte all’ultimo momento non pagano mai e in alcuni casi mettono persino in rilievo tutto quello che non è stato fatto fino a quel momento. E poi, ciliegina sulla torta, involutiva è stata anche la corsa degli Obama e dei Clinton per il suo endorsement. (too much!)
La nuova era Trump
Trump ha vinto con 0,9 punti percentuali in Wisconsin, 1,4 in Michigan e due punti in Pennsylvania, secondo l’Associated Press. Entro la fine del suo secondo mandato, non potrà più candidarsi alla presidenza, avendo esaurito il limite dei due mandati. C’è chi dice che la Harris ora potrebbe seguire le orme di Hillary Clinton che dopo aver perso le elezioni presidenziali del 2016, e una lunga storia al Senato in rappresentanza di New York e un posto nel gabinetto dell’ex presidente Barack Obama come segretario di Stato, ha concentrato i suoi sforzi sulla scrittura di libri, tour di conferenze e sulla fondazione di Onward Together, un’organizzazione di azione politica volta a promuovere valori progressisti e sostenere gruppi con idee simili.
Cosa può imparare Kamala Harris da Richard Nixon?
Dopo aver perso le elezioni presidenziali del 1960 contro John F. Kennedy, l’allora vicepresidente Richard Nixon tornò inizialmente in California e riprese a esercitare la professione legale. Rimase politicamente attivo, facendo campagna per i candidati repubblicani e tenendo discorsi agli eventi. Nel 1962, Nixon si candidò a governatore della California, ma perse contro il governatore in carica Pat Brown. Dopo questa sconfitta, dichiarò alla stampa: “Non avrete più Nixon da prendere a calci”, segnalando quello che molti pensavano fosse il suo ritiro dalla politica. Nixon si trasferì a New York e si unì a un prestigioso studio legale, dove creò legami con influenti personaggi politici e imprenditoriali. Durante questo periodo, viaggiò molto, accrescendo la sua competenza in politica estera. Nel 1968, ricostruì con successo la sua base politica, facendo appello a un elettorato conservatore e scontento. Nixon capitalizzò il clima sociale turbolento e le divisioni sulla guerra del Vietnam, posizionandosi come un unificatore che prometteva “legge e ordine”. Questo ritorno strategico lo portò al successo nella campagna presidenziale del 1968, dove sconfisse il vicepresidente Hubert Humphrey e divenne il 37° presidente degli Stati Uniti.
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